Oggi, l’Apollo 11 di Roma (ore 21, via Bixio 80a) proietta Montedoro di Antonello Faretta, una buona occasione per scoprire nel lunedì post-elettorale un film eccentrico, quasi un’extravaganza nel cinema italiano, passato velocemente in qualche sala il mese scorso. Anche il suo regista, quarantenne nato a Potenza è una figura decisamente fuori formato. Cineasta e insieme artista visivo (si vede nelle immagini che raccontano il paesaggio del film) Faretta, al suo primo lungometraggio, lavora con passione nella sua città dove a creato anche un festival.

E i luoghi sono protagonisti come i personaggi che li attraversano in questo film, una storia intima, la ricerca delle proprie origini nella quale si rispecchia una storia italiana diffusa e comune da sud a nord. È piena di bellezza quella terra che un tempo, come dice il tassista gentile, i contadini «accarezzavano con le zappe», e che ora è rimasta vuota, abbandonata, martoriata e piena solo di dolore. «Il brutto si sta mangiando tutto quanto c’era di bello» spiega a quella donna, arrivata da lontano, l’America, la meta di tanti migranti del luogo, stanca, sperduta, piena di interrogativi che la seguono da una vita intera.

Si fa portare a Montedoro ma il paese non esiste più. Dopo una frana è diventato uno dei tanti paesi fantasma, ricostruito «in basso» per la gioia della speculazione e degli impreditori che ci fanno i soldi, come è accaduto in tanti altri paesi italiani, costretti a spostarsi sulla marina, dove c’è il mare, anche senza grandi cataclismi. O lasciati dopo i terremoti – Gibellina e in tempi più recenti L’Aquila insegnano. Lei cerca la sua famiglia, la madre che non ha mai conosciuto. Ma lì non c’è rimasto nulla, le sue domande le dovrà porre altrove.

 

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C’è qualcosa del melodramma in questa storia – accompagnata dalla «Furtiva lacrima» di Donizetti – che è stato girata a Craco, con la collaborazione affettuosa e complice dei suoi abitanti, il paese in provincia di Matera, ormai molto «cinematografico» – è stato anche set di Mel Gibson ma soprattutto prima ci sono i documentari di Luigi Di Gianni – divenuto «fantasma» nel 1963, dopo una violenta frana. E anche l’ispirazione è «reale», viene dal vissuto dell’attrice protagonista, Pia Marie Mann, che alla morte dei genitori come il suo personaggio nel film scopre le sue origini fino allora ignorate.

Faretta che ha girato in pellicola, sovrapponendo diversi piani narrativi e temporali, perfomance e oralità, un passato e un presente che si fondono nella luce delle sue immagini, trasforma però la realtà in un film di fantasmi. I morti, chi viveva in paese, le case oggi diroccate ma anche quelle persone che non avevano voce, la i poveri schiacciati dai potenti.

Sono volti di bimbi, abiti della festa, un costume da danzatrice, donne che sorridono, le labbra hanno un velo di rossetto. Le case vuote, le ombre che si allungano, il cielo con le sue molte sfumature. Come dare un’immagine all’oralità del racconto, a una storia che non trova spazio se non nei ricordi tramandati fino a sconfinare nella leggenda?

Nel paese abbandonato, quasi una «zona morta» la protagonista compie un viaggio nella memoria, altri racconti, altre parole, l’incontro con due donne misteriose che non sono mai andate via da quei posti deserti, di cui compongono per la donna la trama spezzata, quasi una Spoon River di poesia e di tristezza. Il fabbro che un bozzo enorme sulla schiena si è portato via, il bel giovane che è scivolato nel fiume. E Domenica, la madre della protagonista, bella, brava, gentile.

Per campare la famiglia andava a servizio, nei palazzi dei padroni l’hanno violentata due volte e da quelle violenze sono nati lei e suo fratello. L’America che l’ha comprata, e portata via per sempre. Alla fine rimane qualcosa di impalpabile e insieme potente, una storia italiana e il piacere di un cinema imprevisto