Sono arrivati tutti assieme (ennesima forzatura burocratica del commissariato Tronca, che li voleva tutti dentro un unico contenitore formale e temporale), i festival, le rassegne e i progetti teatrali di qualche senso e interesse, certo infinitamente più curiosi e movimentati di quello che minacciano di offrire le stagioni in arrivo nelle programmazioni dei teatri. Partono in questi giorni i due storicamente più prestigiosi e «storici»: Le vie dei festival di Natalia Di Iorio, sicuramente il più ricco di inventiva e proposte, e l’ufficialissimo Romaeuropa, che il più ricco resta finanziariamente, nonostante l’increscioso incidente che gli fece perdere a gennaio il «milione» da signor Bonaventura lungo la discussione semiclandestina del decreto Milleproroghe in parlamento.

Di quelli che da inizio del mese hanno segnato la fine delle vacanze del palcoscenico (una sorta di oltraggio alla concezione nicoliniana dell’estate urbana), il primo e più robusto è ovviamente Short Theatre: undicesima edizione, programma «a raffica» con parecchi spettacoli in cartellone ogni giorno, una maggiore e più calcolata attenzione alle realtà straniere, e naturalmente un motto, abitudine di romantica e recente diffusione per le manifestazioni romane. Nella fattispecie Keep the village alive. Per lasciarlo «vivo», questo villaggio impiantato in una parte del vecchio Mattatoio di Testaccio, oltre agli spettacoli in senso stretto, molte performances, qualche malizia site specific, come la corsia di letti all’aperto sui quali incontrarsi con una interlocutrice o farsi raccontare le favole da Licia Lanera, un bar e una colonna sonora a palla, in grado a tarda notte di richiamare anche la forza pubblica, forse su richiesta di esercizi concorrenti.

Tra i moltissimi titoli, e annunci di progetti prossimi alla realizzazione definitiva, la cronaca sarà necessariamente arbitraria, come la scelta delle cose cui assistere. Certo è una prova di tutto rispetto quella del Conde de Torrefiel, gruppo spagnolo che ha girato questa estate nei maggiori festival europei. La possibilidad que desaparece frente al paisaje è il titolo di un percorso curioso e intrigante: sulla scena quattro giovanotti, poco più che ragazzi, camminano, marciano, fanno esercizi, si confrontano, si denudano. Tutto con la massima naturalezza e in assoluto silenzio. Una voce femminile «conduce» il gioco, soprattutto quello mentale dello spettatore. Cui prima viene raccontata la performance di Spencer Tunick che ritrae foto di centinaia o migliaia di persone completamente nude, come spesso ci vengono mostrate dai settimanali.

Poi la citazione si fa più ardita, attraverso il riferimento a Houellebecq, per arrivare alla geniale «liquidità» di Zygmunt Baumann. L’origine viene indicata nel pensiero di Benjamin, ma in realtà è di se stesso che lo spettatore si sorprende, per aver viaggiato con la mente, mentre inutilmente cercava nei movimenti degli attori la “causale” delle parole. Quella di Tanya Beyeler e Pablo Gisbert (registi e autori) si rivela un’idea di teatro interessante e non scontata.

Come spesso, del resto, lo è per i Muta Imago, la giovane compagnia che lungo dieci anni di lavoro si è affermata come la più matura, e insieme visionaria, e “mordente” sulla realtà, delle ultime generazioni. Questa volta l’architettura emozionale che costruiscono per immagini, suoni e parole, nasce da un testo francese, Polices!, anche se l’autrice ha nome italiano, Sonia Chiambretto. Un testo duro e analitico, sulla forza pubblica, appunto, e le sue infinite applicazioni e implicazioni. Con le immagini a trattamento elettronico, e con le parole quasi «modulate» dalla tecnica preziosa di Monica Demuru, si entra così nella radice originaria di quelle divise, di quegli schieramenti, dei problemi immani che sotto il loro uso covano e scalpitano. Senza alibi ideologici e senza moralismi, quella di Muta Imago è un’indagine di grande valore e capacità esistenziale per chi vi prende parte, uno «spettacolo» che dalla scena può trasportare in un territorio dai confini davvero ignoti.

Con una tecnica assai più tradizionale, almeno in apparenza, è un processo piuttosto simile quello che investe un testo assai noto di Harold Pinter, Tradimenti. Una storia che parte dall’inizio risalendo lungo le proprie spire, resa famosissima da un film di successo. L’elemento straniante è però quello suscitato dai Tg Stan, compagnia belga assai sperimentale che, non in Italia, ma in tutta Europa abbiamo visto negli anni decostruire testi famosissimi, da Ibsen ai contemporanei, per poi rimontarli dal punto di vista dei vari personaggi secondo il volere e la strumentazione di ogni attore. E invece, davanti alla scrittura di Pinter che ha insegnato ad una o forse più generazioni, le potenzialità della lingua e delle sue sospensioni, delle sue rotture e delle sue pause significanti, gli attori dei tre personaggi mostrano un rispetto assoluto.

La vicenda di quelle tre creature, lei lui e l’altro, uniti da amicizia, professione, e dal legame fortissimo tra i due uomini, assume una quotidianità solo apparente, ma costruita invece come «rappresentazione» di quello che i loro oggetti d’uso (la letteratura come le opere d’arte di cui professionalmente si occupano ad alto livello) evocano e aggomitolano ormai fuori dal vero. Spettacolo interessante e di tutto rilievo, nonostante la sorpresa iniziale di cui si è detto, e alla quale il Tg Stan non ci aveva preparato.