Le migrazioni rendono evidente il carattere totalmente politico, per niente naturale, dello Stato, della sua costruzione, delle sue pratiche e dei suoi confini e, per questo, risultano inaccettabili per l’ordine costituito. Il fatto di svelare l’artificialità dello Stato e di rendere palese, con la propria presenza, che esso è l’espressione di rapporti di forza interni alla società che amministra oltre che a livello internazionale, è uno scandalo che lo Stato stesso non può sopportare.

È questa la verità sociologica e politica che Abdelmalek Sayad ha scoperto nel suo lungo, profondo ed insostituibile lavoro di ricerca con i migranti e sulle migrazioni: il fatto che «i fenomeni migratori costituiscono l’inconscio dello Stato», una rimozione che lo genera e lo alimenta costantemente, costituendo la sua reale ragione di esistenza. Ed è questa scoperta a farne un teorico dello Stato, sollecitando l’attenzione inedita nei suoi riguardi anche nel campo degli studi del pensiero politico.

Fabio Raimondi, in questo prezioso testo Migranti e stato. Saggio su Abdelmalek Sayad (ombre corte, pp. 157, euro 14), articolato in undici capitoli densi di riferimenti alla definizione politica delle migrazioni, riconosce esplicitamente in Sayad un «sociologo della condizione migrante e teorico dello Stato e della sua genesi sociale».

Abdelmalek Sayad è stato uno dei più profondi studiosi dei processi migratori, capace di indagarli dall’interno, nella loro carne, senza separare processi storico-sociali e biografie individuali, perché mosso dall’«etnografia allo stato pratico» che ogni migrante fa della realtà. La sua osservazione ha tenuto sempre insieme le persone e le più generali trasformazioni socio-economiche, non rinunciando a critiche argomentate alla sua parte, soprattutto alla parte degli algerini che, liberati dalla presenza coloniale, non sono riusciti ad emanciparsi dall’eredità coloniale nella costruzione del loro Stato indipendente.

L’analisi che propone Raimondi tiene insieme questi due lati dell’analisi sullo Stato, evidenziando le ambivalenze e le fragilità della situazione post-coloniale, caratterizzata da un passato, quello coloniale, che non passa. Questa eredità si ritrova, da una parte, nella contrapposizione oggettiva tra migranti e Stato, fondata sulla separazione gerarchica tra nazionali e non-nazionali prodotta del pensiero di Stato e delle sue pratiche materiali. Questa contrapposizione si alimenta di un rapporto fondamentale, il rapporto di espulsione. È il potere di espellere e l’esposizione all’espulsione a costituire il carattere asimmetrico della relazione tra migranti e Stato, nonostante si faccia finta che i migranti non siano, in quanto tali, inferiori, attraverso la traduzione del fenomeno sul piano morale, ad esempio esaltando l’impegno di chi fa assistenza nei loro riguardi mentre se ne negano i diritti e, soprattutto, «il diritto di avere dei diritti».

Dall’altra parte, l’eredità coloniale si ritrova nelle modalità di edificazione dello Stato nei territori formalmente liberi dalle potenze coloniali, tanto influenzati dal passato della dominazione al punto, come nel caso algerino, di non riuscire a liberarsene, imprigionati in un’identità fittizia e mitica, alimentata da un nazionalismo religioso debole e speculare al nazionalismo laico francese. In questa maniera, è visibile che, nelle ex-colonie così come nelle ex-metropoli, «se l’indipendenza politica è il compimento della decolonizzazione, le strutture simboliche introiettate e assimilate nel suo corso sono ancora in azione e più difficili da sradicare, evidenziando che il processo di decolonizzazione, simbolica e materiale, è lontano dall’essere compiuto».

Dunque, i rapporti di forza che presiedono alla costruzione ed all’azione dello Stato agiscono sia nelle aree di emigrazione sia in quelle di arrivo e transito dei migranti. È la natura dei rapporti di forza la vera natura del rapporto tra migranti e Stato, così come dell’azione dello Stato stesso, che costruisce politicamente le migrazioni sul piano materiale ed epistemologico. Lo Stato tende concretamente a disciplinare, selezionare, filtrare continuamente i migranti, in quanto figura nemica ma necessaria, cercando di imporsi sul loro movimento e, insieme, produce i migranti come categoria, ribadendone la separazione rispetto ai nazionali, ma anche rispetto agli stranieri, cioè ai non-nazionali privilegiati in quanto cittadini di Stati più forti nella divisione internazionale del lavoro.

A questa costruzione i migranti sono antitetici, ne sono la sovversione, al di là, dice Raimondi, delle proprie intenzioni. È questa una delle tesi centrali del libro, secondo cui «la sovversione è portata dai fenomeni migratori in quanto tali, indipendentemente dalla volontà dei migranti». Le migrazioni sono perturbanti l’ordine politico e simbolico dello Stato, perché ne svelano l’artificialità, ma anche perché possono dare vita a movimenti eretici verso l’ordine politico esistente, coalizzando insieme nazionali e non-nazionali, rompendo la fondamentale distinzione prodotta e riprodotta dal pensiero di Stato.

E questa prospettiva è al centro dell’analisi di Sayad e del libro di Raimondi, indagata attentamente nell’ultima parte, rendendolo anche in questo senso un testo davvero importante: utile anche per orientarsi in uno spazio europeo sempre più segnato dal conflitto tra migranti e Stati e dal conflitto interno alle società sul modo in cui l’Unione Europea vuole governare il «movimento dei corpi dei migranti», un conflitto che segnerà la civiltà ed il grado di giustizia presente e futuro di questa parte del mondo.