Mentre il governo Renzi Mentre il governo Renzi approvava, ricorrendo alla fiducia parlamentare, la Legge 107, in piazza Montecitorio continuava la protesta del popolo della scuola. Insegnanti,genitori,studenti. Quel popolo che aveva riempito le piazze del nostro Paese. E che, insieme ai suoi sindacati, aveva drammaticamente capito e previsto quanto sarebbe successo.

In primo luogo. Non siamo di fronte a quello che era stato presentato come un grande e innovativo progetto di cambiamento culturale del sistema, anzi. Poche righe e neppure chiare nel testo di legge. Eppure ce ne sarebbe stato bisogno dopo la devastazione gelminiana di contenuti e di organizzazione delle cattedre. Anche perché ,oggi più che mai, la discussione sul sapere si intreccia con i temi dell’inclusione, dei diritti di cittadinanza, delle pari opportunità e del ruolo di garanzia dei poteri pubblici rispetto alla qualità e all’equità dei sistemi formativi. Come dire, questioni di democrazia.

In secondo luogo. Il capitolo delle immissioni in ruolo dei docenti precari e delle nuove assunzioni ha visto un procedere complicato che ha prodotto errori e incongruenze sin dallo scorso anno. E il caos di queste settimane tra trasferimenti sbagliati e algoritmi pazzerelli e misteriosi minaccia persino la regolare apertura dell’anno scolastico. Col paradossale risultato di non riuscire ad assegnare tutti i posti vacanti e dover ricorrere di nuovo a supplenti.

In terzo luogo. Da parte ministeriale si rassicura: nei prossimi anni le cose andranno meglio perché nella scuola si entrerà solo per chiamata diretta da parte del dirigente scolastico. Ecco, è il ruolo del cosiddetto preside manager il centro forte di questa legge, che prefigura un modello di scuola verticistica e gerarchica. I nuovi dirigenti hanno compiti di indirizzo (coadiuvati dal Consiglio di Istituto) e insieme di gestione. Sovrapposizione che non esiste in nessun altro comparto della Pubblica amministrazione. Sono figure monocratiche. Definiscono il piano triennale dell’offerta formativa. Scelgono e assumono gli insegnanti, li valutano e assegnano i bonus. Ma la chiamata diretta non fa bene alla scuola, trasforma gli insegnanti in dipendenti del dirigente e limita la loro libertà di insegnamento. Conosco molti dirigenti scolastici, donne e uomini di grande valore e spessore culturale che sanno bene che non si può governare un sistema complesso senza condividere responsabilità con tutti i soggetti della vita della scuola. E che l’autonomia o è un progetto condiviso e cooperativo o non è.

Qui al contrario siamo di fronte alla volontà di ripristinare un ordine, una catena di comando, una trasmissione verticale della volontà politica del governo sul come e in che direzione debba andare la scuola. Un sistema che limita diritti, comprime libertà. E c’è un altro rischio assai pesante in questo modello. Sappiamo bene che affidare ai dirigenti la scelta degli insegnanti non solo limiterebbe pensiero critico e libertà di insegnamento ma produrrebbe a lungo andare differenze inaccettabili tra le scuole: di serie A e di serie B, per i ricchi e per i poveri, per i centri e per le periferie. Rendendo più acuto un fattore di crisi, quello delle diseguaglianze, che invece occorre sanare, per tornare alla scuola della Costituzione. Perché è proprio questo il tema dello scontro. Tra dettato costituzionale e logiche aziendali che , tra l’altro, mal si sposano con l’assenza di investimenti e addirittura dei finanziamenti necessari alla sopravvivenza del sistema. «Che nessun bambino resti indietro» continua dunque ad essere il compito fondamentale della scuola. Ma la «buona scuola», ahimè, sembra pensata solo per i «bravi» ragazzi.