Occhi chiusi, braccia in alto, i corpi oscillano al ritmo di una musica intensa, una preghiera viene scandita sottovoce. Non siamo in una chiesa cattolica durante la messa né al culto in un tempio protestante. La coreografia è accessibile a chiunque, non c’è bisogno di conoscere particolari gestualità liturgiche né di sapere gli inni cantati dai fedeli. Volendo, ci si può tranquillamente lasciar andare alle parole euforiche del predicatore e alla potenza dei suoni. E’ la scena del culto pentecostale dove il linguaggio del corpo è primario così come lo è la musica.
Dalle nostre parti l’infrastruttura discorsiva se l’è sempre cavata affibbiando l’etichetta di setta a tutto ciò che stava fuori delle chiese storiche, i tre cristianesimi europei, cattolico, protestante, ortodosso. Relegando queste nuove chiese ad una pochezza che faceva risaltare la supremazia delle istituzioni ecclesiastiche affermate. C’è chi ha scoperto le persecuzioni perpetrate dal fascismo dalle scuse che papa Francesco ha recentemente rivolto ai pentecostali. Nessuno deve però averlo informato che le vessazioni sono continuate durante il regime democristiano.
Pentecostalismo o, meglio, pentecostalismi. Non c’è un meta modello che consenta di definire questo movimento così come siamo abituati con le chiese storiche. E’ un arcipelago di arcipelaghi in continua scomposizione e moltiplicazione. Paolo Naso in Cristianesimo: Pentecostali (Emi, pp. 159, euro 12) traccia con ottima sintesi e lucidità la storia globale dei pentecostali, quasi si dovesse parlare di ognuno di loro, non potendo agevolmente appiccicargli un qualche –ismo. Unico rammarico sul libro è la deliberata esclusione dei carismatici-pentecostali cattolici, la forma pentecostale che dal 1967 sta agitando la chiesa di Roma.
Tradizionalmente si fa originare il movimento in un luogo, Azusa Street a Los Angeles, una data, 1906 e un «iniziatore», l’afroamericano, figlio di ex schiavi, William J. Seymour. È la prima volta nella storia che a fondare un movimento cristiano non sia un europeo, se si esclude Gesù il Nazareno. Non avveniva nel vuoto questa creazione, ma era stata preceduta dalla corrente del risveglio interna al mondo protestante. È trascorso poco più di un secolo e quella piccola setta di poche centinaia di adepti si è velocemente trasformata in un fiume impetuoso che ha superato il mezzo miliardo di fedeli, che ha spostato a Sud del mondo la traiettoria di evoluzione del cristianesimo, che cresce e prolifera proprio là dove le maschere dello sviluppo si incancreniscono e le vulnerabilità sociali si esasperano. Lagos in Nigeria è la città più pentecostale del mondo. In Brasile il 20 per cento della popolazione è pentecostale, in altre nazioni latinoamericane, come il Guatemala, lo è la metà della popolazione. È in Corea del Sud la più grande chiesa pentecostale con un milione di fedeli. In Ucraina la più grande d’Europa con 25.000 membri.

Un movimento globale

Fin dagli anni dell’Azusa Street il movimento è stato globale: in India promosso da una figura straordinariamente significativa di riformatrice sociale, femminista, studiosa di sanscrito, come Pandita Saraswati Ramabai (1858-1922), in Cile nella chiesa metodista di Valparaiso che presto produrrà secessioni e nuove chiese, stesse caratteristiche a Pyongyang nella (attuale) Corea del Nord. Come sottolinea Paolo Naso in alcune aree del Sud del mondo il movimento pentecostale non fu solo frutto dell’azione missionaria occidentale, ma anche espressione dell’autonoma ricerca spirituale delle popolazioni locali. Questa autonomia è sottolineata anche da Allan H. Anderson, uno dei maggiori studiosi del movimento, nel suo ampio studio To the Ends of the Earth- Pentecostalism and the Transformation of World Christianity (Oxford University Press). Il caso italiano lo dimostra: il pentecostalismo nasce su iniziativa di emigrati italiani convertiti negli Stati Uniti che rientrano in patria come promotori della nuova fede. Tra questi un mosaicista friulano, Luigi Francescon (1866-1964), globetrotter pentecostale che fonda chiese in Europa e nelle Americhe. Oggi i pentecostali di svariate denominazioni sono in Italia mezzo milione, in continua crescita anche per l’apporto delle chiese dei migranti, costellazione di riti e spiritualità che arricchiscono il mercato religioso e dei beni simbolici della penisola. Se in Italia e nel mondo si calcolano anche gli aderenti ai movimenti carismatico-pentecostali interni alla chiesa cattolica si capisce perché questo quarto cristianesimo sia l’unico orizzonte di espansione della religione cristiana.
Teologie fluide, portatili, e spesso contrastanti caratterizzano il movimento, che ha però una precisa proposta costituente: una esperienza di vita e non una dottrina, una emozione e non un pensiero. L’effusione dello Spirito e i suoi doni o carismi, come raccontato nel Nuovo Testamento dal libro degli Atti, sono il punto di partenza, la sua Pentecoste. Una fede performativa che conduce alla conversione etica, un mutamento nel progetto di vita in cui «l’invenzione di sé» è il fattore determinante. L’autovalorizzazione viene messa in scena e resa effettiva dando spazio a processi di affrancamento e di emancipazione soprattutto quando riguardi gruppi socialmente marginali. Più che tangibile per le donne che attraverso la «nuova vita» riescono ad addomesticare maschi refrattari alle socialità responsabili. No alcol, no gioco, no droghe, no violenza, no sesso «disordinato». Un riordino della vita interiore per sé stesse e per il coniuge. Forse questo è uno dei motivi per cui due pentecostali su tre sono donne. Per ceti meno deprivati l’accento è posto soprattutto sul Gospel of Wealth, il vangelo dell’abbondanza e della prosperità come premio alla nuova vita.

Una teologia postcoloniale

Una accoppiata tra Spirito e spirito del capitalismo di rara forza. La povertà è una colpa da cui ci si può emendare, senza aspettare vite future. Parole che suonano in modo antitetico se pronunciate in una platea bianca dell’Oklahoma, in una favela brasiliana o in una periferia kenyota. Che è anche uno dei temi affrontati in modo approfondito da diversi autori in Cristianesimi senza frontiere – Le Chiese Pentecostali nel mondo (raccolta di studi curata da Pino Lucà Trombetta, Edizioni Borla, pp. 227, euro 26) dove si analizzano assestamenti e replicazioni delle comunità pentecostali nei cinque continenti. Miriadi di micro chiese o mega churches, indipendenti o volubilmente connesse, spesso in concorrenza, senza un centro, con una energia virale che non ha eguali negli altri cristianesimi. Una multiforme offerta transnazionale e una caleidoscopica domanda di religiosità. In America Latina ha rotto il monopolio della chiesa cattolica, in Africa converte al cristianesimo e converte il cristianesimo alle culture locali, come osserva Annalisi Butticci in uno dei saggi del libro (della stessa, con Enzo Pace, vedi Le religioni pentecostali, Carocci, pp. 140, euro 15,30) . Un cristianesimo postcoloniale ormai del tutto svincolato dalla filosofia e dalla teologia europee, in grado di produrre progetti religiosi e di condotta politica del tutto autosufficienti e originali, non solo là dove visione spirituale e forte impegno sociale tendono a coincidere o in situazioni di frontiera come nelle chiese pentecostali aperte a gay, lesbiche, transgender, ma anche in realtà dove spesso l’esito strettamente politico è di tipo conservatore e reazionario, come per certi telepredicatori infatuati, per figure come l’ex dittatore guatemalteco Rios Montt, per la destra repubblicana negli Usa.

Tra preghiere e invocazioni


Una situazione locale complessa, in cui ibridazione e sincretismo, politica e potere anche qui recitano la loro parte, è quella studiata da Silvia Confalonieri nell’ampio lavoro sul campo Il movimento pentecostale nel post-genocidio rwandese – I Salvati (Balokole) (l’Harmattan Italia, pp. 388, euro 38,50).
Se alziamo un poco gli occhi al di là della nostra nicchia e osserviamo la composita profusione religiosa del pianeta, si proporranno con una certa energia domande non trascurabili. Si crede di più oggi? È di nuovo partito il re-incanto del mondo che credevamo cancellato dal Novecento? La secolarizzazione è giunta al capolinea? L’indifferenza religiosa è una nobile pratica in via di smaltimento?
Al buio del mondo, che non possiamo certo minimizzare, si risponde con la luce autoritaria di un Veni creator Spiritus cantato in molte lingue e con nomi diversi. A forza di invocarlo è ricomparso, nel formato cristiano canonico e, lo Spirito soffia dove vuole, nelle fattezze di altre piccole e grandi fedi. Avevamo creduto di abitare un universo post cristiano e post religioso ed invece sentiamo levarsi dappertutto preghiere e invocazioni, timorati e tumorati di Dio si affacciano da tutti i lati. Non hanno bisogno di Dio, di qualsiasi dio si tratti, lo vogliono. È il desiderio il vero trasformatore di energia e, a differenza di religiosità appena trascorse, non ha peccati di cui pentirsi, colpe da cui emendarsi, bensì attese da realizzare, innamoramenti da vivere. È un’erotica per certi versi inedita per la sua dimensione globale e per il godimento che procura. L’eros che eccitava alla libertà, alla rivoluzione, alla democrazia, ha cambiato altari?
Come diceva Yehuda Amichai o mio Dio, o mio Dio, perché non mi hai abbandonato?