«Volevo dirti che lunedì entro in prigione. Mi hanno avvisato che devo presentarmi». Incredulità. Silenzio. Poi il coraggio di dire una cosa stupidissima pur di spezzare il silenzio sulla conversazione in wifi. «Sei sicuro? È definitiva? Non è che rimandano ancora?». «Sì, è definitivo. Non c’è niente da fare. Per un anno dovrò stare in prigione. Non c’è altro da fare». Keywan Karimi, autore del documentario Writing on the City e di Drum, suo esordio nella finzione presentato nell’ambito della 31esima edizione della Settimana della Critica di Venezia, è rassegnato. Il suo calvario, fatto di convocazioni, interrogatori e minacce, trova la sua brutale conclusione nella conferma di un anno di prigione a causa del suo documentario che racconta la storia della repubblica islamica a partire dalla rivoluzione sino al secondo mandato di Ahmadinejad. Accusato di oltraggio all’Islam e offesa allo Stato, Karimi si è visto prima condannato a sei anni di carcere, poi ridotti a uno, e a 223 frustate.

Nonostatne le pressioni esercitate e la presenza del suo film a Venezia, la comunità internazionale del cinema non ha risposto con la forza e la determinazione che la gravità della situazione avrebbe legittimamente richiesto. Più volte Karimi ha denunciato il suo sentirsi isolato dal mondo del cinema, non solo iraniano. E adesso il silenzio che circonda la sua condanna è ancora più insostenibile perché si associa inevitabilmente a un sentimento di impotenza e frustrazione. «Non ho paura di andare in prigione», spiegava al telefono. «Mi spaventano le frustate. Non so come potrò reagire. Sono molto spaventato. All’idea di vivere per un anno in prigione mi ci posso abituare, ma le frustate mi fanno paura. Non so che fare». L’assurdità di parlare con una persona, un artista, un creatore, un cineasta, un poeta, minacciato di carcere e frustate, è atroce. I limiti di un pensiero, occidentale e non solo, che di fronte a queste violazioni dei diritti fondamentali non può fare altro che restare impotente, è una delle molte contraddizioni della nostra «libertà». «Non capisco perché la gente non parla del mio caso», mi dice Karimi. «Per Panahi si sono mobilitati tutti. Io invece sono solo…». A questa domanda, legittima, di Karimi, si può rispondere parzialmente, anche se resta comunque inaccettabile, che il suo essere curdo pesa come un macigno sulla sua situazione e sul silenzio del resto del mondo.

«Sì, temo anche io che il mio essere curdo pesi molto nella mia situazione…». Ora, nell’incertezza di fonti ufficiali, e nell’impossibilità di raggiungere Keywan Karimi, per accertarsi della sua incolumità, non resta che aumentare ulteriormente la vigilanza democratica e tentare di sensibilizzare al massimo il mondo civile e culturale nei confronti della situazione di Keywan Karimi. Inquieta inoltre la coincidenza fra le date dell’arresto del regista e il festival del documentario che fra qualche settimana inizia a Tehran. Come a volere lanciare un monito a quanti, cineasti e artisti, in prossimità anche delle prossime elezioni, pensavano di far sentire la loro voce.

Ancora una volta le contraddizioni della società iraniana, ben più complesse di quanto un’analisi superficiale possa permettere di immaginare, ricadono sulla testa di quanti tentano di porsi al di là dei ragionamenti ufficiali. In questo senso Drum, l’esordio di Karimi nella finzione, con il suo approccio quasi fassbinderiano al racconto delle trasformazioni urbane e architettoniche di Teheran, offre semmai un ulteriore motivazione politica. In questo quadro di atroce incertezza, nel quale Keywan Karimi annuncia di dovere entrare in prigione oggi, e a fronte dell’assenza di qualsiasi conferma ufficiale, non si può non chiedere a tutti di alzare al massimo la soglia della vigilanza. Ed è fondamentale che Writing on the City e Drum siano proiettati in quante più situazioni possibili. L’appello pertanto va soprattutto ai programmatori, agli operatori culturali e ai festival. Chiudere gli occhi non è possibile. A meno che non sia voglia essere complici di questo crimine. Mi raccomando«, chiede Keywan Karimi, «fai tutto quello che puoi per fare sapere della mia situazione. Ho bisogno di tutto l’aiuto possibile».