C’è un duplice rischio nel raccontare il Novecento prevalentemente come secolo barbaro. Da una parte si comprimono le tante dinamiche sociali, politiche e culturali che ha saputo esprimere all’interno di questo esclusivo paradigma, trascurando quindi gli innumerevoli aspetti di emancipazione che pure hanno invece accompagnato un’epoca di grandi trasformazioni. L’autonomia dei movimenti sociali, la loro vivacità scolora dentro un calderone dove l’unico tratto comune rimane l’indice della sopraffazione.

Dall’altra, si finisce con il ricondurre tutto il male di questo mondo all’epoca a noi più prossima, comprimendolo dentro un arco di tempo ristretto e sottraendolo ad uno sforzo di necessaria storicizzazione, dove la comparazione con le brutalità che accompagnarono l’Ottocento coloniale è, invece, imprescindibile. Si rischia, nell’uno e nell’altro caso, l’autoreferenzialità, riconducendo al solo Continente europeo la complessità dei processi storici.

Scritture affollate

La questione non è da poco poiché gli studi, le analisi, le indagini così come le incursioni sociologiche, filosofiche e antropologiche sulla violenza istituzionalizzata, ossia praticata dagli Stati e dagli apparati pubblici, occupano oramai interi scaffali di librerie e biblioteche. Con l’effetto che, nel tentativo di chiarire le dinamiche e il senso dei fatti, l’affollarsi di scritture e discorsi su di essi rischi di diventare invece cacofonico, ossessivamente ripetitivo, ovvero drammaticamente inflattivo. A forza di parlarne, il risultato che si ottiene è quindi quello della stanchezza e, insieme ad essa, dell’ottundimento quietistico. Il fenomeno riguarda in particolare modo gli ultimi trenta o quarant’anni quando, a fronte di un raffinamento delle competenze storiche, si è registrata anche una robusta diffusione e socializzazione dell’attenzione sui temi del genocidio, entrati a pieno titolo nella formazione dell’opinione pubblica. Che da ciò siano derivate maggiori competenze e una più diffusa sensibilità sulle pratiche di prevenzione, è cosa difficile da dirsi.

Mentre parrebbe quasi di potere registrare che vi sia, almeno a tratti, un rapporto inversamente proporzionale tra la concentrazione mediatica, nonché emotiva, sulle questioni dell’orrore collettivo e la capacità delle comunità di intervenire politicamente per evitare che esso possa ripetersi. Ai ripetuti richiami non si sono accompagnate buone pratiche, come la guerra in Jugoslavia, negli anni Novanta, si è incaricata di dimostrarci. Si è invece figliata e alimentata una retorica dell’umanitario che ha molte ambiguità, a tratti ibridandosi con le cause stesse che determinano le tragedie.

In buona sostanza, la coesistenza di antitotalitarismo liberale (che postula la totale coincidenza tra storia politica e ordinamenti liberaldemocratici), umanitarismo consensuale (che presuppone il rifiuto di ogni forma di ricorso alla violenza nei processi di emancipazione) e naturalizzazione dell’ordine sociale (per il quale non esisterebbero alternative allo stato vigente delle cose, poiché questo sarebbe la «naturale» disposizione delle medesime e non il risultato di un conflitto aperto tra soggetti e interessi contrapposti), rende più difficile capire quale sia la valenza effettiva del ricorso alla forza brutale nel processo storico. Una tale lettura di contesto, infatti, non aiuta a cogliere l’intreccio tra la violenza dal basso, quella della comunità, e la violenza dall’alto, istituzionale, quando l’una e l’altra si intrecciano in un complesso di azioni che, rafforzandosi vicendevolmente, conducono verso una catastrofe collettiva, come nel caso dei genocidi.

Nato come una riflessione sociologica e psicologica sulle dinamiche della costruzione del male di Stato, ossia la barbarie genocida, il volume di Abram de Swaan, Reparto assassini. La mentalità dell’omicidio di massa (Einaudi, pp. 306, euro 27) assume, pagina dopo pagina, i connotati di rassegna storica e di analisi teorica dell’annientamento collettivo nel Novecento. Lo fa avendo alle spalle la consapevolezza di non dovere offrire il fianco alla tentazione di un’interpretazione univoca della stratificazione delle tragedie, quella che invece dovrebbe racchiudere in sé, a detta di certuni, una chiave esplicativa universale.

Asimmetrie

Come lo stesso autore rileva, rispetto ai fatti non esistono principi unitari bensì ricorrenze.
Ciò che ne deriva, all’interno di un testo corposo ora a disposizione del lettore italiano, non è il repertorio degli eventi tragici ma un percorso logico attraverso la distruzione collettiva delle comunità, «ossia la violenza asimmetrica e ravvicinata che mette a confronto uccisori e vittime», fino a rendere plausibile il crimine generalizzato nei confronti di inermi all’interno della propria comunità.

De Swaan interseca analiticamente una pluralità di livelli: quello sociale (l’ambiente e le relazioni in cui si strutturano le dinamiche criminali), quello istituzionale (la cornice amministrativa e i sistemi legali che rendono lecito l’assassinio), il situazionale (i rapporti concreti tra singoli individui) e lo psicologico (l’autopercezione dell’individuo così come i meccanismi che operano nella sua coscienza, soprattutto in relazione alle sollecitazioni collettive).

Ne emerge un ritratto a più livelli dove «a essere moderno non è l’assassinio di massa, bensì l’imbarazzo che suscita». Per de Swaan, professore emerito di scienze sociali all’Università di Amsterdam, non esiste una specificità barbarica del Novecento bensì delle linee di continuità, come di discontinuità, rispetto al passato.

Condizioni di sistema

Ne escono fortemente ridimensionate, da queste pagine, le letture che hanno invece insistito sulla peculiarità del genocidio nel Novecento, come nel caso di Zygmunt Bauman, o sulla «banalità» del male, così come Hannah Arendt aveva diagnosticato riguardo la fisionomia di certi esecutori.

Sono invece valorizzate le condizioni di sistema, a partire dagli stimoli ambientali, come nel caso dei rivolgimenti politici ed economici, che possono indurre i singoli a reagire aggressivamente ad una condizione di perdita di status e di senso di sicurezza. La questione di fondo, per de Swaan, rimane la capacità dei regimi omicidi di generare indifferenza morale e alienazione dagli effetti etici della propria condotta. Il punto di sintesi, per così dire, si gioca intorno a questa competenza, che è forse la vera costante nel corso del tempo, tra esperienze storiche differenti.

La scissione tra coscienza e azione è però qualcosa che va ben oltre i drammatici cascami e le ricadute genocidarie dei crimini di massa, rimandando semmai ad una peculiare modalità di rapporto tra individuo e collettività nell’età contemporanea. Il ricorso all’assassinio di massa, quindi, assume la sinistra fisionomia di una radicalità che si trova nelle pieghe delle quotidianità, quand’anche quest’ultima riveste i panni della prevedibilità e della moderazione