Il salotto di casa Abdi è uno scrigno. I dipinti di Abed incorniciano lo spazio di divani, libri e antiche lampade. Il tavolino gronda di volantini, quaderni e posaceneri pieni. Questa, nel cuore del quartiere palestinese di Wadi Nisnas ad Haifa, non è una casa qualsiasi: «Qui nel marzo del 1976 si riunirono i leader palestinesi di partito e di comunità dentro lo Stato di Israele. Decisero lo sciopero del 30 marzo, passò alla storia come Giorno della Terra», racconta il figlio Attila.

Per la prima volta dal 1948 i palestinesi sopravvissuti alla Nakba e all’espulsione di massa si mobilitarono contro l’ennesima confisca di terre in Galilea: fu una strage, sette giovani palestinesi ammazzati dall’esercito israeliano. Vengono commemorati ogni anno, il 30 marzo, Land Day.

Partì da qua, da questa casa di proprietà di uno dei più grandi artisti palestinesi, Abed Abdi, uno che espone quadri a Tokyo, Londra, Berlino, illustratore di riviste e quotidiani che sono pietre miliari nella cultura palestinese, al-Jadid e Al-Ittihad, compagno di lavoro di Emile Habibi, Samih al-Qasim, Salman Natour e allievo dell’artista ebrea tedesca, sopravvissuta alla Shoah, Lea Grundig.

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COSA RESTA di quella storia, viene da chiedersi, in una città – Haifa – che ha sempre indossato i panni della convivenza per scoprire che quella che veniva spacciata per co-esistenza non era che una mera condivisione di spazi. Wadi Nisnas si tiene con i denti la sua identità palestinese, offuscata in una città che soffoca le antiche case tra grattacieli ultramoderni e palazzine decadenti.

Qui resiste un’identità altra, che non sta solo nelle pietre ma nel modo di vivere, così simile alle cittadine in Cisgiordania o ai quartieri di Gerusalemme est. Il caos controllato di anziani che giocano a backgammon in mezzo alla strada, bambini che si lanciano per le vie scoscese in bicicletta, auto parcheggiate in ogni anfratto disponibile. Insegne in arabo.

Oggi Israele va alle amministrative, inizialmente previste per il 31 ottobre scorso. Si vota in 197 comuni e 44 consigli locali: 24.910 candidati per sette milioni di aventi diritto al voto; 801 candidati sindaci, appena 83 donne; e un paese ancora in bilico con centinaia di migliaia di riservisti e 100mila sfollati dal sud e dal nord, mai rientrati a casa.

Per il Likud del premier Netanyahu è un test politico fondamentale, soprattutto alla luce della proteste di sabato scorso, le più partecipate dall’attacco di Hamas. Tanto pericolose per la maggioranza che la polizia le ha disperse con violenza. Chiedono la testa di Bibi, ancora al suo posto dopo il mega fallimento del 7 ottobre. Lui sta ancora là, consapevole che guerra e radicalizzazione del discorso pubblico sono la sua sola fonte di sopravvivenza.

Attila Abdi, insieme a compagni palestinesi ed ebrei, sta lavorando alla campagna elettorale di Hadash, partito della sinistra israeliana che ancora si ispira alle sue radici comuniste. Le speranze sono pochissime, l’affluenza delle comunità palestinesi è data ai minimi termini, nelle città miste e nella Gerusalemme est degli apolidi senza cittadinanza, dove le diseguaglianze si allargano ogni giorno di più (una su tutte, il diritto all’abitare: 140 le case palestinesi demolite nel 2023, il 60% in più del 2022).

Che senso ha votare, si chiedono tanti, in un clima di guerra interna come quello attuale? Meglio il boicottaggio politico. «Eravamo il primo partito tra i palestinesi di Israele. Ora è difficile: siamo nel pieno della peggior ondata di fascismo dal regime militare post-48. La destra non mollerà il potere, si radicalizzerà ancora di più – continua Attila – Il Likud, negli anni, ha creato il suo apparato parallelo: la burocrazia è piena di suoi fedelissimi. Tra qualche anno non ci sarà istituzione che non sarà controllata da gente del partito».

SUL TAVOLINO si affollano volantini con i volti dei candidati di Hadash alle amministrative e adesivi che prendono in giro lo slogan pro-guerra «Together we win». Diventa «Together we win, anarchists and communists».

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«Lo slogan di Hadash è “speranza”, ma quale speranza? Di cosa la riempiamo questa parola?». Accanto ad Attila, Gaia arrotola un manifesto. È giovanissima, ha 23 anni ed è entrata nel partito da poco. È ebrea ed è una delle anime delle manifestazioni per il cessate il fuoco che attraversano Haifa. Qualche decina di persone che resistono sedute a terra per una ventina di minuti. È il massimo che la polizia concede, poi picchia e arresta.

«Dalla polizia me lo aspetto», ci diceva Gaia poco prima nella sede del Comitato, pareti bianche e poster che mescolano i simboli della storia della Palestina a quelli del comunismo internazionale. «La cosa peggiore sono i cittadini. Quando ci passano accanto, ci sputano addosso, ci insultano. Non glielo perdonerò mai. Danno all’esercito e al governo la copertura per portare avanti il massacro di Gaza. Sui social ci augurano di morire o di essere stuprate».

L’anti-occupation block, la piattaforma anti-sionista nata anni fa contro l’occupazione militare, è ormai attiva solo ad Haifa e Tel Aviv. Si è ridotta, appassita: «Tanti hanno paura della repressione, di essere arrestati o di perdere il lavoro. Ma tanti altri non vengono più per motivi politici: pacifisti, sostenitori della sinistra sionista, attivisti dicono di essersi “svegliati”, di aver capito dopo il 7 ottobre che il dialogo è impossibile. Che con i palestinesi non si può convivere. Sono passati dall’altro lato e noi siamo soli».

Isolati, con un panorama mediatico che li oscura. In tv il loro impegno non passa, come non passa la morte che tallona Gaza. Si vedono i raid aerei, il fumo che fa scomparire il contorno dei palazzi, i soldati israeliani che entrano in case ormai vuote con i fucili spianati. Dei civili palestinesi, i corpi senza vita, le file per un pasto caldo, gli ospedali ridotti a caserme non c’è nemmeno l’ombra.

Gaia è stata arrestata due volte. La trattengono qualche ora, la minacciano. La polizia si è presentata anche a casa della madre: tua figlia è ricercata per incitamento. Un’accusa che oggi costa anni di galera. Il motivo, una sua foto accanto a un graffito con la A di anarchia. Alla fine l’hanno accusata di vandalismo.

SI RITIENE comunque una privilegiata, «ai palestinesi li tengono dentro per settimane, poi finiscono spesso ai domiciliari. Perdono il lavoro, la loro vita finisce». Lei nell’esercito ci era entrata a 18 anni. Ha resistito quattro mesi, poi è scappata. «Sono stata sionista, so come funziona. Ho iniziato a rieducare me stessa, a liberarmi dalle bugie che mi avevano accompagnata a scuola, a casa. Come prendere la pillola blu. Nell’anti-occupation block e in Hadash ho trovato la vera convivenza».

La pillola blu, il “risveglio”, da queste parti funziona in tante direzioni diverse, attraversa esistenze individuali. Verso destra, verso sinistra. A colpire è la rinnovata solitudine, tra chi credeva di condividere più di un semplice spazio. Amani si è svegliata il 7 ottobre ed era cambiato tutto. È una palestinese di Haifa, figli al seguito, un compagno ebreo e tanti amici «di tutte e due le parti».

«Sono scomparsi. Hanno iniziato a guardami diversamente, come fossi stata io». Prende una manciata di mandorle verdi, accarezza il cane. «Ho perso molti amici ebrei, le persone si sono chiuse nella loro paura. La mia famiglia mi ha cresciuto come israeliana, ha insistito su questa identità, “sei un’israeliana”. Con il tempo ho scoperto chi ero, palestinese, cittadina di serie B in uno stato che non mi vuole. Prima non avevo mai pensato di essere in contraddizione, di essere fuori posto».

Il pensiero si è insinuato dopo, la vetrina di Haifa è andata in pezzi. Prevale la paura, dettata dal maccartismo che aleggia su università e posti di lavoro ma anche dai piccoli mutamenti delle abitudini quotidiane. Il non frequentare più certi posti, certi bar, certe vie o l’impossibilità di camminare per la propria città senza ritrovarsi accanto civili armati, fucili a tracolla o poggiati sulle sedie dei café.

«IN UFFICIO non dico una parola. È come un tacito accordo: di Gaza non si parla». Mariam ha scelto il silenzio negli spazi pubblici, fisici e virtuali. Alle spalle ha un’esperienza di attivismo climatico, sembra una vita fa. «All’inizio noi palestinesi ci sentivamo frustrati, dal silenzio che ci veniva imposto. Oggi quel silenzio è quasi confortevole. Come se ci proteggesse: ho amici che hanno perso il lavoro per aver parlato. Non ho mai dato importanza al frequentare ebrei, era normale: ho ballato alle loro feste, ho fatto attivismo con loro, abbiamo preparato insieme gli esami dell’università. Cosa c’era di anormale? Forse lo era. Ho preso coscienza che di quel mondo non facevo parte».

«La cosa più dolorosa? Il sentirmi addosso il dovere di dimostrargli che non sono una minaccia».