Il giorno della presentazione della sua ricerca ai compagni di classe, Anna è nervosissima. Niente colazione e infila la porta senza un cenno di saluto alla madre. Non è così strano: come dice lei stessa, sulle sue spalle non porta solo lo zaino e il computer del fratello, ma tutta la storia della nonna Miriam. Una storia che inizia con un particolare all’apparenza insignificante: alla nonna di Anna, da sempre, non piacciono le bucce d’arancia candite, specialità per cui suo marito è tanto famoso tra famigliari e amici.

Il mistero della buccia d’arancia, il libro scritto da Lia Tagliacozzo per Einaudi Ragazzi (pp.106, euro 11, illustrazioni di Angelo Ruta), ha un magnifico espediente narrativo con cui intrappola il lettore nelle sue maglie: procede per cerchi concentrici, va dal piccolo dettaglio (il gusto della nonna che non ama il sapore di quell’agrume) ai macroeventi (la guerra, la persecuzione degli ebrei, le fughe per la salvezza). Come un sasso lanciato in uno stagno, allarga la conoscenza altalenando tra presente e passato, seminando di indizi il percorso e lanciando immaginari flashback, quelli che la protagonista Anna «vede» seguendo alcune tracce intriganti (fotografie, lettere e alla fine – con coraggio – la nonna stessa, sua fonte orale).

A comporre il mosaico della trama come fosse un giallo, non è una fiction, ma una stagione di vita vissuta. Una stagione sospesa, un «tempo rubato», rivisitato – come confessa l’autrice – «mettendo nel frullatore le persone della mia famiglia» (i fatti narrati riguardano in realtà sua madre e poi i fili delle storie si intrecciano).

Non sveleremo in questa sede cosa mai avesse nonna Miriam contro le bucce d’arancia candite (che restano comunque buonissime), ma il romanzo di Lia Tagliacozzo (già autrice di Gli anni spezzati. Storie e destini nell’Italia della Shoah, edito da Giunti) affronta un tema spinoso, con una mano leggera: l’importanza della testimonianza «in presenza», attraverso la voce di chi ha sperimentato sulla propria pelle la paura della deportazione, la necessità di fuggire e abbandonare tutto, la fame, l’incertezza del futuro. È qui il senso della «fonte orale» che Anna porterà in dono alla esigente maestra Marcella – e naturalmente ai suoi compagni di classe -, quel racconto che disegna una geografia sentimentale di spostamenti, mai neutrale, ma piena di affetti e dolori. Soprattutto, se come controparte si ha di fronte una nonna (e anche una zia) che ricorda e che conserva in un mobile segreto, sempre rigorosamente chiuso, la sua unica bambola stropicciata – regalatale dalla figlia di contadini in Svizzera, luogo d’esilio insieme alle sorelle quando era piccolissima – e le lettere sbiadite del padre Giorgio (bisnonno di Anna).

Ci vorrà la furbizia dei bambini e una complicità strategica tra fratelli e cugini per scardinare la resistenza psicologica degli adulti, riconsegnando il passato al presente. Un’operazione di spostamento temporale questa, che si può fare in mille modi. Qui, la vicenda della famiglia della scrittrice torna prepotentemente in scena non solo per vivificare la memoria di una tragedia immane come l’Olocausto, ma anche per sottolineare alcune somiglianze con l’epoca attuale, quando persone che scappano da guerre e persecuzioni nei loro paesi cercano di varcare i confini su gommoni che, spesso, vanno alla deriva, infrangendo i loro sogni.