«In primavera vi è foschia, in estate vi è il cuculo che mostra la sua presenza tra le verdi foglie, in autunno vi è il cielo serale che ispira tristezza, in inverno vi è la neve del primo mattino. Tutti questi sono il «sapore del cha no yu». (Kobori Enshu, Testi di Kobori Enshu scritti e gettati via).
Cha no yu, letteralmente «l’acqua calda del tè», è il termine originale per definire il rito che noi oggi comunemente traduciamo in lingua occidentale come «cerimonia del tè». Senza sapere che il primo a utilizzare la parola «cerimonia» in questo ambito fu il missionario gesuita portoghese João Rodrigues (1561/62-1633) in un trattato sull’arte del tè in Giappone, compilato in epoca rinascimentale. Mentre la parola tè, tea, thé, tee, simile nelle diverse lingue europee, deriva dal carattere cinese cha, anche pronunciato te in alcuni dialetti meridionali.
Sono curiosità come queste, divertenti e accessibili a tutti, insieme a fonti straordinarie e puntuali tradotte da testi originali di epoca Muromachi a venire offerte al lettore occidentale per la prima volta nel volume di Aldo Tollini La cultura del tè in Giappone e la ricerca della perfezione (Einaudi, pp.240, euro 22). «La ricerca – racconta Tollini – è partita due anni fa quando per caso mi imbattei in biblioteca in una traduzione inglese di uno dei testi fondamentali del tè, il Zencharoku. Era basato su una traduzione del Settecento. Illeggibile. Sono andato a prendermi l’originale e da lì è cominciato il viaggio nella cultura del tè».
È un testo prezioso quello di Tollini, un manuale e insieme un testo filologico e critico, che introduce alla filosofia, alla storia, ai personaggi, all’arte e alla cultura giapponese che si è sviluppata nei secoli intorno a quel semplice gesto di preparare e bere il tè, riportando quella che oggi viene promossa e assimilata a una performance ai suoi più profondi significati, correggendo storture e incomprensioni legate più alla moda e a un esotismo contemporaneo che a un reale tentativo di conoscenza.
La leggenda racconta che il patriarca dello zen Bodhidarma (V-VI secolo), dopo anni di meditazione, seduto rivolto contro una parete, avesse ceduto alla tentazione del sonno e risvegliatosi si fosse talmente arrabbiato con se stesso che decise di tagliarsi le palpebre. Cadute a terra, queste diedero vita alla pianta del tè, che si distingue per le sue foglie allungate e che da sempre ha avuto un legame intimo con la cultura zen per il suo potere di aiutare lo stato di veglia.
La storia registra invece l’arrivo del tè in Giappone dalla Cina nel 727, con un’ambasceria presso la corte dell’imperatore Shomu (701-56). Si diffuse in seguito nel XII secolo presso i monasteri buddhisti dell’area di Kyoto, grazie ai ripetuti viaggi del monaco Myoan Eisai al quale si deve una delle varietà di tè giapponese ancora oggi più apprezzata, quella di Uji.
Contrariamente a un sapere diffuso che vede la cerimonia del tè svilupparsi inizialmente in ambito aristocratico guerriero, tra la classe dei bushi, si scopre nel capitolo terzo dedicato all’evoluzione di questa pratica che invece fu la ricca classe mercantile-borghese dell’area di Sakai ad affermarne il gusto semplice e legato a uno stato di quiete. Lo fece in risposta all’usanza invece più in voga allora che prevedeva vere e proprie gare in cui gli ospiti dovevano indovinare le provenienze di varie specie di tè sottoposte durante l’incontro (chayorai), che prevedeva anche musica, scambi di poesie, l’apprezzamento della pittura e di oggetti in ceramica.
Fu sotto gli shogun Ashikaga, intorno al XIV secolo, e in particolare con il raffinato Yoshimasa (ottavo shogun a cui si deve l’elegante Padiglione d’argento di Kyoto) che la pratica si diffuse anche tra la classe samuraica, diventando parte di quella Via che univa nella forma etica guerriera e filosofia zen, traducibile nel detto zencha ichimi: «Lo zen e il tè hanno lo stesso sapore». Due mondi alla ricerca, attraverso l’essenzialità, la semplicità, la sublimazione del gesto quotidiano, di un’unione con la natura più grande a cui l’animo umano appartiene. Un pensiero lontano, se non opposto, rispetto a quello rinascimentale europeo che mette invece al centro l’uomo, punto di riferimento assoluto.
È la cerimonia del tè wabicha, dove il termine wabi indica povertà, assenza, mancanza, ma come valori aggiunti. Concetti che esprimono una cultura basata sulla forma più che sulla parola, tanto che la cerimonia del tè condotta dal maestro, per il suo ospite diventa una forma d’amore paragonabile al rapporto di comprensione e sintonia tra due amanti. Quella del wabicha è una forma che fu codificata e portata al massimo splendore dal grande maestro del tè Sen no Rikyu (1521-91) e che oggi si tramanda con Sen So Oku suo quindicesimo discendente. Certo, le parole dei chajin (uomini del tè), tradotte da Tollini in linguaggio a noi comprensibile, rivelano quanto la tradizione della cerimonia del tè possa influenzare la vita e il comportamento umano a livello politico, estetico ed etico fino ai più semplici gesti quotidiani di accoglienza e ospitalità. E allora verrebbe da suggerirne la pratica come formazione ordinaria anche qui in Italia. Ce ne sarebbe tanto bisogno. «In questa Via (del tè), le cose da evitare a ogni costo sono i sentimenti di orgoglio e di attaccamento, e poi l’invidia verso chi è più bravo e l’atteggiamento di superiorità verso coloro che sono dei principianti. Questi sono tutti sentimenti inammissibili. Invece, verso coloro che sono più abili, ci si avvicini e si chieda loro di insegnarci, mentre verso i principianti ci si volga per allevarli» (dalla Lettera del cuore di Murata Juko, 1423-1502)