Per un artista come Bowie che ha fatto della metamorfosi musicale e stilistica il fulcro della sua carriera sapendo, anche grazie al travestimento, modificare continuamente la propria identità pur restando fedele a se stesso, il videoclip è stato uno strumento fondamentale di comunicazione. Non è un caso che vi abbia sempre messo lo zampino, al di là dei registi che ha scelto per essere diretto. Fin dai primi anni Settanta – cioè dall’era antecedente a Mtv – il musicista inglese ha usato al meglio i promo televisivi, sebbene all’epoca la tecnologia non lasciasse spazio alla post-produzione e alla sperimentazione video. Pensiamo a Heroes di Stanley Dorfman affascinante nella sua essenzialità, con i fasci di luce che avvolgono il corpo androgino di Bowie creando come un’aura luminosa intorno a lui fino a smaterializzarlo.

Negli anni Ottanta Bowie si concede ancora un travestimento: il clown triste di Ashes to Ashes, glaciale eroe che si aggira in un mondo privo di sentimenti accompagnato dai giovani «neoromantici». La maggior parte degli effetti soprattutto cromatici, come ricorda il regista David Mallet, veniva fatto direttamente in camera. Girati in Australia nel 1983 (sempre da Mallet, videomaker che ha realizzato il più alto numero di video per Bowie) i fortunatissimi Let’s Dance e China Girl, rappresentano due apologhi multietnici: il primo sulla crisi di identità degli aborigeni, privati della loro terra e corrotti nella loro cultura, il secondo, più onirico ed erotico, composto da tanti quadri in successione fino alla scena finale con Bowie e la ragazza che fanno l’amore nella luce del tramonto in riva al mare come in Da qui all’eternità.

Non meno memorabili sono i clip realizzati da Julian Temple. In Blue Jean (versione ridotta del minifilm Jazzin’ for Blue Jean) Bowie si sdoppia: un trasgressivo performer in abiti orientaleggianti che seduce la ragazza di un avventore noioso e conformista. Molto diverso dal glamour di Absolute Beginners è Day-In Day-Out, favola nera che coniuga lo stile nervoso del reportage televisivo con la narrazione, dove il rocker canta gli orrori e le perversioni quotidiane di una New York degradata, in cui una madre per sfamare suo figlio è costretta a prostituirsi.

Nel notturno Underground, diretto da Steve Barron, Bowie è una creatura proveniente da un’altra dimensione che, con le sue metamorfosi, stupisce perfino le buffe e deformi creature del sottosuolo (i pupazzi di Jim Henson che è anche regista di Labirynth, film fantasy interpretato e musicato dalla rockstar medesima).
Dopo una parentesi con Jean-Baptiste Mondino – che lo dirige in Never Let Me Down, misto colore/bianconero con tanto di maratona da ballo – il Duca Bianco inaugura i Novanta, accompagnato da una serie di video di qualità: Fame ’90 di Gus Van Sant, dallo stile dichiaratamente videoartistico; Jump They Say di Mark Romanek, attraversato da un freddo e futuristico iperrealismo con citazioni da 2001 e La jetée, nonché riferimenti al fratello morto sucida; lo sperimentale Miracle Goodnight di Matthew Rolston, costruito quasi tutto su immagini speculari, con lo schermo diviso in due; I’m Afraid of Americans di Dom & Nick, con un Bowie vittima della psicosi collettiva degli americani che si credono in guerra con tutti.

Ma i registi che tra gli anni Novanta e i Duemila hanno saputo meglio esplorare il mutevole immaginario musicale di Bowie, sono Sam Bayer, Walter Stern e Floria Sigismondi. Il primo dirige nel 1995 Strangers When We Meet e The Heart’s Filthy Lesson, accomunati da uno stile «sporco» e aggressivo, in linea con le sonorità industrial dell’album Outside da cui sono tratti: se nel primo, in cui vediamo una love story tra Bowie e una goffa ballerina, vi è anche uno scalcinato pianoforte poi distrutto a colpi di accetta, nel secondo ci imbattiamo in manichini sanguinolenti e decapitati, torturatori, fachiri, punk, forse morti viventi, animali in formalina e tutto il campionario di un fatiscente gabinetto degli orrori, dentro il quale Bowie sembra trovarsi pienamente a suo agio.

Simile a quello di Bayer è anche lo stile della Sigismondi, che realizza due clip nel 1997 (Little Wonder e Dead Man Walking) e altri due nel 2013, The Stars (Are Out Tonight) e The Next Day.
In Little Wonder trasformandosi in un bizzarro alter-ego, il musicista inizia un onirico viaggio metropolitano, imbattendosi in bulbi oculari o uomini-fantocci con il volto deforme videoproiettato (installazioni di Tony Oursler, autore di Whewe are we now, clip del 2013). Dead Man Walking è invece tutto girato in teatro di posa ed è giocato su colori accesi, elettrici, nonché su una trama di rapide sfocature, violenti movimenti di macchina, tremolii, fluorescenze, lampeggiamenti. Se il blasfemo The Next Day ci mostra preti lascivi e violenti, cardinali diabolici e pornosuore martirizzate con tanto di stimmate, tutti avventori di un pub dove Bowie in saio francescano si esibisce con la band, The Stars mette in scena una partita a quattro diurna/notturna tra una coppia altoborghese (Bowie e Tilda Swinton) e i loro doppi giovanili, da cui emergono inquietudini e desideri erotici sopiti. Sembra quasi che The Stars, con uno stile visionario, riprenda il tema di Thursday’s Child, diretto da Walter Stern nel 1999: qui Bowie, specchiandosi nel bagno di un hotel (una sorta di stanza dell’inconscio), affianco alla sua non più giovane compagna, dà il via a un gioco di sdoppiamenti e trasformazioni, a un quadrangolo di sguardi e sentimenti, finché il musicista si ritrova – triste e rassegnato – davanti alla realtà del tempo che passa. Uno dei suoi clip più riusciti: profondo, intenso, delicato, ma anche terribilmente spietato.

Per i video dell’ultimo album, Blackstar e Lazarus, Bowie si è affidato a Johan Renck. Il primo, ricco di simbologie e riferimenti all’occultista Crowley, lo abbiamo già recensito, mentre Lazarus – uscito appena tre giorni prima della sua morte – ne è in qualche modo la continuazione: anche qui Bowie, smagrito e tremante, ha una benda sugli occhi sostituiti da due bottoncini, disteso sul letto di una squallida stanza di ospedale in attesa di una fine imminente. Una misteriosa presenza femminile (la malattia? la morte?) compare nella penombra di un vecchio armadio dentro cui, al termine del video, la rockstar sparirà per sempre.

Renck fa roteare continuamente la macchina da presa nell’ambiente angusto, filmando il degente nei suoi movimenti convulsi o mentre tenta di scrivere su un quaderno le sue ultime volontà (o, forse, proprio il testo della canzone che stiamo ascoltando il cui incipit è: «Guarda quassù, sono in paradiso»). Singolare la scelta del formato: più stretto di un già obsoleto 4/3 ma troppo largo per la visione verticale su smart-phone. Ripensando a quanto Bowie fosse consapevole del suo destino ideando sia Lazarus che Blackstar, non si può fare a meno di vedere questi lavori con occhi totalmente diversi e comprendere che siamo di fronte a una vera e propria messa in scena, seppure trasfigurata, della propria fine di cui ha voluto rendere testimone il pubblico, come se l’arte potesse beffare perfino la morte.