«Gli oggetti sospetti sono stati distrutti dal sistema di difesa antiaereo e non hanno provocato alcun danno», ha detto il comandante in capo dell’esercito iraniano, generale Amir Mousavi.

E questo è tutto sui tre droni che hanno colpito la base dell’aeronautica militare nel nord-est di Isfahan, lanciati – secondo il canale vicino al Corpo dei Guardiani della Rivoluzione – dall’interno del paese o dal Kurdistan iracheno. Non è chiaro se e quali danni abbiano provocato, fonti interne parlano di tre esplosioni.

Come quelli israeliani, anche i media statali iraniani hanno continuato a minimizzare l’impatto dell’attacco, ma alcuni analisti rimangono perplessi.

Sembra poco credibile che la risposta dei falchi del gabinetto di guerra israeliano, sostenitori di una risposta forte per ripristinare la capacità di Israele di scoraggiare i suoi nemici, si fermi così.

Il fatto che gli israeliani abbiano potuto raggiungere i siti militari e nucleari iraniani attraverso i loro droni era già stato appurato: nell’aprile dell’anno scorso, quando tre micro-droni esplosivi avevano preso di mira un impianto per la fabbricazione di munizioni a nord-ovest di Isfahan.

Il rischio di una rappresaglia israeliana più grave rimane tangibile e concreto, a meno che l’amministrazione americana sia riuscita a convincere Netanyahu ad accontentarsi. Teheran è convinta che l’amministrazione Biden, in vista delle elezioni presidenziali, non desideri un conflitto devastante nel Medio Oriente e che riesca a tenere a bada il suo alleato israeliano.

L’attacco israeliano al consolato iraniano a Damasco ha avventurosamente infranto le sottili regole della “guerra ombra” che le due parti combattono da anni.

Teheran, già indebolita da una grave crisi economica, ostilità popolare, pressione esercitata dai falchi del sistema e dall’accusa sempre crescente del mondo arabo di parlare e non agire, aveva scatenato centinaia di droni e missili verso Israele.

Raid che resta controverso, alcuni analisti militari lo considerano un capolavoro, altri un maldestro spettacolo pirotecnico.

Il fatto è che Teheran aveva comunicato in grande anticipo le sue intenzioni e per alcune fonti aveva anche fornito i dettagli dell’operazione “Vera Promessa” agli americani attraverso la Turchia.

Secondo alcuni rapporti, molti dei missili lanciati non erano neanche equipaggiati con testate esplosive.

I leader della Repubblica Islamica erano pienamente consapevoli che avrebbero offerto a Netanyahu esattamente ciò di cui aveva bisogno: distrarre l’attenzione dal proprio fallimento e dal genocidio a Gaza, riconquistare il sostegno degli alleati e dell’opinione pubblica per garantire la sua sopravvivenza politica e perseguire i propri obiettivi. Tuttavia, riaffermare la propria credibilità e il prestigio tra i suoi sostenitori era la priorità di Teheran.

L’Iran non dispone né della potenza economica né degli armamenti necessari per sostenere una guerra frontale contro Israele o gli Stati Uniti. Inoltre, non gode del sostegno della maggioranza dei suoi cittadini e cerca di evitare un conflitto aperto. Tuttavia se la leadership teocratica, devota nel portare tutti i suoi cittadini verso il paradiso, si sentisse minacciata nel suo potere, non esiterebbe a mettere a rischio la nazione e scatenare un conflitto capace di incendiare l’intera regione.

Se l’attacco a Isfahan non sarà seguito da altri attacchi, le tensioni immediate si allenteranno e l’attenzione si concentrerà sull’operazione israeliana a Rafah.

Il comportamento iraniano e Hezbollah libanese durante l’attacco israeliano a Rafah ormai dato per certo, determinerà il futuro delle ostilità tra i due paesi.

Nel frattempo, le strade di Teheran sono pesantemente sorvegliate, apparentemente per imporre il controllo sull’abbigliamento delle donne secondo l’islam. Ma sembra essere un pretesto per prevenire eventuali ribellioni della popolazione che non vuole la guerra.