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Giorgio de Chirico, Il Trovatore (part.), 1917

Nella pittura, nella scultura, nelle immagini che non siano in movimento, il tempo, cioè quella che assieme allo spazio è per Kant forma a priori, garanzia dell’intuizione dei fenomeni esterni e fondamento della conoscenza del mondo esterno, il tempo ha in generale scarso rilievo: scorre, anche se solo all’indietro, diventa solo «passato». Giorgio de Chirico, a differenza di suo fratello Alberto Savinio, soprattutto un letterato, ma anche un appassionato di musica, non ebbe interesse alcuno per questa problematica realtà contro la quale giocò anche a rimpiattino, rifacendo propri quadri, datandoli a tempi diversi da quelli dell’elaborazione, ma non per ingannare il pubblico, com’è accertato. Quando de Chirico comincia a realizzare i suoi fantastici manichini, lo stato del tempo all’interno della pittura è ambiguamente collocato tra la manipolazione nel senso della velocità, che vorrebbero i futuristi, e l’algida atemporalità di Böcklin. Già i futuristi s’erano dati da fare. Del resto, le idee sullo spazio e sul tempo stavano cominciando a cambiare in relazione con gli studi di Einstein.

Alcuni artisti hanno intuizioni prodigiose. Là dove lo scienziato sta arrivando con la soluzione scientifica (provvisoria, se si vuole) di incongruenze fisiche, Dalí lo fa destrutturando gli orologi, facendoli diventare materia morbida, duttile, tali e quali al tempo, ch’essi misurano in funzione dell’uomo, nell’insieme teorico che sta figurandosi con la nuova fisica. Volendo si potrebbe far discendere un po’ tutto ciò dal mondo nietzschiano e dalla sua teoria dell’eterno ritorno dalla quale non si sa bene se ricavare che lo stato è l’immobilità oltre il velo dell’apparenza, oppure una folle giostra, come quella che sembra aversi a bordo.

È però incomprensibile che non si sia vista la quasi coincidenza del paese di Fertilia, un po’ a nord di Alghero, col paesaggio di de Chirico. Naturalmente quello real-geografico è vivo, a volte almeno, ma se si osserva la fuga del corridoio di edifici che portano dall’interno al mare, esso è perfettamente dechirichiano, pur se il monumento ai marinai che è al centro della fuga non è affatto degno, ma è una questione di dettaglio. Del resto, pur se le luci non sono quelle, pur se l’isola di Böcklin appare più toscaneggiante, l’atemporalità suggerita da Fertilia, è la stessa. Nella località geografica, sotto i portici che accompagnano la prospettiva, non si desidera vedere nessuno e, fortunatamente, quasi sempre ciò è quel che avviene.
De Chirico nel suo processo metafisico sembra trarre fuori da sé, dalla sua pittura, qualcosa che è immagazzinato in lui, immoto. È forse una conseguenza della marginalità che ha il realismo carnale nella pittura italiana. Come in Morandi, già in Antonello e poi un po’ in tutti, non nell’Arcimboldo però o poi nella modernità, cioè nella pittura post impressionistica, i ritratti che fanno i pittori sembrano ritrarre ritratti.

Sono immagini da cui la vita è lontana, non quella dell’arte, ma quella biologica, sciupata dal tempo. Può esserlo per stilizzazioni, e siamo perfettamente in tema dechirichiano, dal ritratto nascono gli ovali dei manichini, ma gli autoritratti sono statuari, esemplari stilistici di un qualcosa che va appeso al muro, comunque diverso dalla vita umana.
Sia da intendere nel Surrealismo, o no, la Metafisica è costituita da un insieme di opere assai nutrito. Un indirizzo musicale metafisico non c’è. Forse perché la musica è naturalmente astratta. La discografica Riverside però, nel 1958, producendo l’ellepi Misterioso del quartetto di Thelonious Monk (con Griffin, Malik e Haynes) ottenne di poter usare l’immagine de Il Vaticinatore di Giorgio de Chirico, 1915. Probabilmente avvicinò il musicista al pittore pensando che Monk cercasse un finto naturalismo suo proprio, facendo ruotare pochi temi, con un materiale nitido, dotato del minimo di dinamismo, in movimento sì, ma come rotatorio ed eterno. Sono qualità spesso sottolineate nell’arte di Monk e di qualche suo accolito e seguace, come Steve Lacy e tra i vivi, Sullival Fortner, forse.