Francia, 23 novembre 2015. Sono passati solo dieci giorni da quando un gruppo armato islamico fedele al Califfato ha massacrato a Parigi decine e decine di francesi e non solo. Il governo ha proclamato lo stato d’emergenza, sui giornali la domanda più ricorrente è: perché? Un quesito che assume toni drammatici mano a mano che emerge il fatto che alcuni componenti del commando sono figli di migranti ma nati in Francia o in Belgio. È in questo contesto che Alain Badiou tiene un seminario al teatro comunale di Aubervilles, opportunamente tradotto da Einaudi con il titolo Il nostro male viene da più lontano (pp. 68, euro 12).

Alain Badiou, philosophe, romancier et dramaturge francais. Paris,FRANCE-le 04/10/11/Credit:BALTEL/SIPA/1110251103

Il filosofo francese invita alla calma, a mantenere la necessaria lucidità nel comprendere un fenomeno ai più sconosciuto, ma abbastanza evidente da quando, mesi prima, un altro gruppo islamista radicale aveva messo a morte gran parte della redazione del giornale satirico Charlie Hebdo. Chi ha sparato al Bataclan o contro giovani seduti nei bistrot o al ristorante, riuniti per bere un aperitivo o per la cena, conferma un identikit già noto: giovane delle banlieue, conducendo un’esistenza ai margini per poi aderire a una visione politica fondamentalista. Per Badiou non ci sono troppi giri di parole: quei giovani esprimono ostilità, rabbia, odio verso i valori della Republique. Vedono nella Francia un paese coloniale e oppressivo all’interno (i giovani islamici segregati in maggioranza nelle banlieue) e all’esterno, perché complice o protagonista di molte guerre contro l’Islam.

Il fascismo islamico

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Badiou non ha difficoltà nel ricostruisce la genesi di tale odio, individuandola nel passato coloniale francese. Scrive di una doppia morale: se aerei di combattimento e soldati francesi bombardano o uccidono civili in Libia o in Mali lo fanno per difendere la democrazia e per combattere l’oscurantismo del Califfato, ma se ci sono giovani che usano la stessa violenza contro francesi sono solo bestie. La contabilità dell’orrore non porta tuttavia lontano. Nel seminario non ci sono infatti parole di comprensione o di giustificazione per il commando. Badiou usa la fragile categoria di «fascismo islamico». È consapevole delle critiche che l’hanno accompagnata e ha un bel da fare a precisare i termini del nichilismo di massa, della caduta verticale di legittimità dei valori repubblicani. La sua spiegazione della violenza nichilista al Bataclan corre comunque il rischio di un determinismo economico, che il filosofo non sempre riesce a padroneggiare. Se le banlieues sono gli spazi metropolitani dell’esercito industriale di riserva, poco o nulla viene detto sulla presenza di soggettività postcoloniali in terra di Francia che, nella loro ambivalenza, oscillano tra anomia, radicalizzazione del trittico «libertà, eguaglianza e fraternità» e invenzione di identità islamiche fondamentaliste.

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Quello che preme di più a Badiou non è però un’analisi dei meccanismi di integrazione e esclusione sociale; né vuole sbrogliare la matassa dei mancati incontri tra i movimenti sociali «metropolitani» e i banlieusard, come testimoniano ad esempio le mobilitazioni recenti contro la loi du travail. È invece interessato ad aprire una discussione sul «reale», sulla sua intelligibilità se si rimane ancorati a una vision neoliberista.

Un testo breve, dunque, questo dato alle stampe da Einaudi, ma comunque indicativo delle difficoltà di chi ha manifestato, come Badiou, la possibilità di dare nuova linfa vitale all’«idea comunista». Andrebbe però letto, al di là dell’oggetto del seminario (l’islamismo fondamentalista), come una tappa di un percorso teorico più che ventennale, scandito da molte tappe (i suoi saggi pubblicati) alle quale vanno aggiunte quelle rappresentate da due volumi usciti più o meno negli stessi giorni di questo pubblicato dalla casa editrice torinese. Il primo è Alla ricerca del reale perduto (Mimesis, pp. 66, euro 8) e l’altro è Lacan (Orthotes Edizioni, pp. 214, euro 20). Entrambi raccolgono scritti e testi di seminari che attraversano gli anni Novanta. L’oggetto polemico di li unisce è la critica al pensiero unico che stabilisce il capitalismo internazionale come solo reale possibile.

Le macerie del muro di Berlino erano state, al momento della scrittura dei testi, da poco raccolte per metterle in un museo dedicato al terribile Novecento. In filosofia, almeno in Francia, i nouveaux philosophes erano ancora sulla cresta dell’onda e autori come Gilles Deleuze, Michel Foucault sono guardati con sospetto, mentre i maître à penser dei decenni passati sono da da cancellare dal pantheon del sapere perché complici e corresponsabili del «comunismo reale».

Pensare l’impossibile

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Per contrastare questo «clima» culturale, Badiou propone di fare un doppio movimento teorico. Da una parte «pensare l’impossibile», che non va inteso come una fuga dal reale, bensì come operazione propedeutica a svelare il carattere parziale, ideologico di quello che viene presentato come l’unico reale esistente. Dunque l’impossibile non propone un altro reale, ma il modo per operare una scissione in due dello stesso. Perché il reale non è un unicum: esprime sempre un conflitto che ne presiede lo sviluppo. È questo conflitto che va nuovamente svelato, affinché la «passione per il reale» che ha contraddistinto il Novecento possa tornare ad occupare la scena principale nelle società capitaliste. Ma se questo è il primo movimento proposto da Badiou – pensare l’impossibile per riproporre il reale rimosso o cancellato dagli apologeti del pensiero unico – il secondo riguarda il reale da ristabilire.

Per fare questo, Badiou privilegia l’«aneddoto», la «definizione» e la «poesia». Operazione sofisticata e tuttavia mimetica, allusiva, mai performativa. L’aneddoto parte dal malato immaginario di Molière: è esso reale o appunto immaginario? È reale anche se immaginario, afferma Badiou. Perché il malato immaginario è reale tanto quanto chi denuncia l’assenza di malattia. Anche qui una scissione del concetto di reale.
Per definizione, Badiou intende invece la scienza e la sua pretesa di restituire un reale non ambiguo, scevro da possibili interpretazioni, anzi formalizzabile attraverso la matematica, la fisica. Ma un numero o una equazione, una funzione non aiutano nella comprensione del reale: questo mantiene la sua intelligibilità se si delega i soli numeri a rappresentarlo. La scienza attiene quindi al mondo della natura, non a quello prodotto dall’uomo per dominarla e assicurarsi le condizioni della sua riproduzione come specie. Infine c’è la poesia, più precisamente le Ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini, come emerge nel testo pubblicato da Mimesis. La lettura del testo pasoliniano è funzionale a quello svelamento della possibilità di «pensare l’impossibile».

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Pasolini scrive le Ceneri di Gramsci negli anni Cinquanta. Il poema viene pubblicato nel 1957, un anno dopo che le truppe del patto di Varsavia sono entrate a Budapest e hanno represso nel sangue la rivolta ungherese. Non ci sono mai riferimenti espliciti a quel che è accaduto in «campo socialista», ma Pasolini compone il poema con la consapevolezza che qualcosa si è infranto, che l’idea di trasformare la realtà si è infranta sugli scogli della realpolitik e di un regime oppressivo come quello dell’Urss. Questo non significa rinunciare a pensare l’impossibile. Gramsci era anch’egli uno sconfitto, annota Badiou, ma ha continuato a scrivere, lasciando in eredità testi considerati uno degli esempi più creativi del pensiero marxista. È la brace che continua a bruciare sotto la cenere.

La mappa lacaniana

C’è però la necessità di ripensare la filosofia, meglio il «filosofare». La figura intellettuale che fornisce elementi per definire il filosofare dopo la fine della «passione per il reale» è Lacan, il «mio maestro» scrive Badiou.

Il Lacan di Badiou non è quindi un antifilosofo, come molta saggistica oltralpe sostiene. Quello di Lacan è infatti presentato come un laboratorio filosofico che cerca di costruire una mappa tematica dove immaginario, desiderio, godimento, psicoanalisi sono chiavi di lettura del reale, nonostante l’analista francese abbia sempre manifestato la sua insoddisfazione, insofferenza, talvolta ostilità verso la filosofia (avvincenti e ironiche sono le pagine dove Badiou ricorda il giudizio ostile di Lacan contro Heidegger e la metafisica). Anche in questo caso il reale va pensato nella sua tensione antagonista.

Ma se uno dei due poli del reale è il capitalismo internazionale, l’altro polo è sempre in attesa di essere nominato. In questi tre volumi non compare mai, vista la dimensione mimetica che Badiou persegue. Ma è indubbio che è l’idea comunista: che l’agisce può essere sconfitto, ma essa è come un’araba fenice che risorge sempre dalle sue ceneri. Quella del filosofo francese non è quindi un tentativo di rifondare l’idea comunista, ma di preservarla dall’oblio. La sua è una, va da sé appassionata testimonianza del carattere antagonista del capitalismo. Badiou tratta però sempre con sufficienza i tentativi di capire come il capitalismo è cambiato e come è cambiato il suo antagonista, il proletariato. La globalizzazione, il neoliberismo sono considerati come fenomeni parziali, effimeri tesi a prevenire il pensare l’impossibile. Quella di Badiou è cioè una filosofia dell’attesa, non quella messianica ma quella di tempi migliori.

Le ceneri del Novecento

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La sua «teologia comunista» si nute di pessimismo della ragione e della volontà. Per Badiou siamo nell’era del sempre eguale. Ma se eguali rimangono le condizioni di sfruttamento del lavoro vivo, le forme dello sfruttamento rivestono in questa contingenza una rilevanza teorica e politica. Finanziarizzazione, precarietà, general intellect, globalizzazione non sono significanti vuoti, ma parole, campi di intervento politico dentro e contro un rapporto sociale di produzione dove lo sviluppo capitalistico è ancora scandito dal lavoro vivo, dalla sua composizione sociale, dalle forme di conflitto. E dai limiti che il lavoro vivo manifesto. Quel che occorre, più che testimoniare fedeltà all’idea comunista, è «attraversare» (di nuovo: dentro e contro) le ambivalenze del lavoro vivo, delle sua composizione sociale e del suo divenire, come drammaticamente evidenziano proprio quei giovani banlieusard che hanno massacrato altri giovani al Bataclan di Parigi o che a Bruxelles si fanno saltare in un’aeroporto. Qui la tensione antagonista del reale si manifesta, in attesa non di essere svelata quanto di essere messa al lavoro politicamente. Qui c’è sperimentazione. Qui c’è movimento reale. Altrimenti la brace che cova sotto le ceneri di Gramsci o di Marx più che riaccendere la passione del reale si spegne.