Il rapporto fra i cosiddetti «anni di piombo» e la narrativa italiana è al centro del bel saggio di Gabriele Vitello, studioso formatosi alla scuola di Romano Luperini e dottore di ricerca all’Università di Trento (L’album di famiglia. Gli anni di piombo nella narrativa italiana, Transeuropa, euro 14,90). L’autore si chiede perché non esista un grande romanzo sul terrorismo italiano, nonostante quasi tutti i nostri maggiori scrittori si siano accostati al tema: da Leonardo Sciascia a Natalia Ginzburg, da Pierpaolo Pasolini ad Alberto Moravia. Vitello affronta la questione con gli strumenti della critica e della storia letteraria, aprendo all’occorrenza anche la cassetta degli attrezzi dei cultural studies.

Vitello esamina un nucleo consistente di testi letterari sugli «anni di piombo» apparsi fra gli anni 70 e oggi, scegliendoli fra quelli che hanno posto al centro della narrazione le dinamiche familiari. Un topos che risulta centrale nella produzione letteraria sul terrorismo, specie quello di sinistra. Si spiega così il titolo prescelto, L’album di famiglia, il quale riprende la celebre formula utilizzata da Rossana Rossanda nel 1978, su questo giornale, per descrivere i legami fra la cultura dei terroristi e quella della tradizione comunista. La scontata lettura edipica del ribellismo giovanile e della stessa lotta armata – come lotta dei figli contro i padri – non convince l’autore. Muovendo dalla riflessione del lacaniano Massimo Recalcati sulla «evaporazione del padre», Vitello evidenzia piuttosto la fragilità della figura paterna e l’esaurimento del suo ruolo tradizionale.

I romanzi studiati dall’autore attraversano due fasi distinte della narrativa italiana: quella postmoderna, segnata da una sorta di «divorzio» con la storia, e quella più vicina ai canoni realisti, affermatasi a partire dalla metà degli anni 90. Se i romanzi della prima fase preferiscono evocare le paure e gli spettri della stagione terroristica, quelli più recenti cercano di ricucire un rapporto con i fatti reali, ritagliandosi uno spazio fra altri strumenti di comunicazione, come il cinema o la televisione, forse più capaci di influenzare il discorso pubblico sul terrorismo. La produzione letteraria esaminata, tuttavia, nel complesso non sembra essere stata all’altezza delle circostanze rievocate.
Perché? Forse, seguendo l’analisi di Vitello, si potrebbe individuare come causa una certa difficoltà da parte degli intellettuali di cogliere le reali poste in gioco e la portata delle trasformazioni in atto negli anni 70. Si è trattato talvolta di una consapevole sfiducia nella possibilità di giungere a una ricostruzione razionale della storia di quegli anni, talaltra di una rimozione delle circostanze reali e delle responsabilità dei soggetti sociali coinvolti nel terrorismo.

Gli anni 70 sono, d’altra parte, fra i più complessi della storia dell’Italia repubblicana. Come ricorda l’autore, la categoria di «anni di piombo» non rende ragione delle tante sfaccettature di quel decennio. Quel periodo, così cupo e controverso nell’immaginario collettivo, è anche il momento di massima applicazione dei principi costituzionali. Lo Stato sociale (seppure malconcio e sbilenco) che ormai da anni è sotto attacco ha conosciuto proprio allora i momenti fondamentali della sua costruzione. Tutto questo è avvenuto in un contesto in cui la violenza politica sembrava connotare molte delle espressioni di rinnovamento sociale, innalzando il livello di tolleranza della società e degli stessi intellettuali nei confronti delle armi.