Rendere sostenibile la pesca del tonno: gli attivisti di Greenpeace hanno messo in campo un’azione di protesta contro la multinazionale tailandese Thai Union, che produce un quinto delle scatolette vendute nel mondo, in Italia con il marchio Mareblu. I metodi di pesca adottati in particolare nell’Oceano Indiano causano la morte di altri esemplari – tra cui centinaia di migliaia di squali ogni anno – e mettono a rischio la sopravvivenza delle popolazioni delle piccole isole del Pacifico. Ieri l’assalto simbolico a una industria francese di inscatolamento, la Petit Navire a Douarnenez, in Bretagna, mentre nell’ultimo weekend azioni dimostrative si sono tenute in tanti supermercati italiani.

Il piccolo naviglio e l’Esperanza
Ieri mattina 25 attivisti di Greenpeace, tra cui tre italiani, hanno bloccato la fabbrica di tonno in scatola di Douarnenez, di proprietà della Thai Union. In 15 si sono incatenati ad alcune scatole di tonno giganti bloccando l’uscita dei camion dall’industria. In contemporanea, alcuni climber si sono calati dal tetto dell’edificio a una decina di metri di altezza per dipingere sulla facciata un enorme messaggio: «Stop Ocean Destruction» (Fermiamo la distruzione degli oceani). Sulle scatole giganti, insieme al marchio francese Petit Navire (il piccolo naviglio), si leggeva anche quello italiano di Mareblu e l’inglese John West, tutti della Thai.

Ma l’azione non si ferma qui: già da cinque settimane la nave “Esperanza” di Greenpeace si trova nell’ Oceano Indiano (da qui arriva la gran parte del nostro Mareblu), per fermare la pesca eseguita con i «Fad», oggetti galleggianti o più sofisticati sonar che attraggono e aggregano non solo i tonni adulti, ma anche giovani esemplari e altri animali marini, tra cui molti squali. Tra i 480 mila e i 960 mila squali seta ogni anno, i baby tuna, le tartarughe finiscono tutti insieme indistintamente nelle enormi reti, attirati e concentrati dai Fad.

Lettera a Bangkok, zero risposte
Giorgia Monti, responsabile della campagna Mare di Greenpeace Italia, spiega che l’associazione ambientalista lavora sulla questione della pesca del tonno da almeno cinque anni, e che nell’ultimo ha voluto concentrarsi in particolare sulla Thai Union, essendo una multinazionale che per le sue dimensioni può “trainare” anche le altre. «È molto importante l’informazione – afferma – e le scelte consapevoli dei consumatori possono fare tanto, perché i produttori seguono il mercato e le richieste dei diversi paesi».

In Gran Bretagna, Australia, Austria, Svizzera, Germania, ad esempio, una maggiore selezione nel consumo ha già modificato il mercato, ed è crescente il quantitativo di tonno che arriva da tipi di pesca alternativi. Adesso tocca all’Italia, ma a cambiare dovrà essere “la testa del pesce”, tanto per restare in tema, ovvero la multinazionale a Bangkok.

In Italia siamo già alla quarta edizione della classifica «Rompiscatole», che Greenpeace stila in base alla sostenibilità della pesca di tonno. Nell’ultimo weekend decine di volontari in tutta Italia hanno svuotato gli scaffali dalle scatolette di Mareblu per impedirne la vendita, postando sui social la foto di carrelli ripieni di confezioni mai arrivate alla cassa. «Un modo per sensibilizzare sicuramente il ramo italiano della Thai, la Mareblu appunto, che nel nostro Paese ha solo addetti commerciali – spiega Giorgia Monti – ma ovviamente puntiamo alla casa madre».

Greenpeace international ha infatti recapitato una lettera alla Thai Union, a Bangkok, finora senza risposta. Chiede di abbandonare la pesca con i Fad per abbracciare metodi meno di impatto: «La “pesca a canna” – indica – È quello che per esempio è successo alle Maldive, o in altre isole del Pacifico. Per raggiungere i volumi necessari al mercato, si possono affiancare le reti a circuizione, ma senza l’uso di Fad».

Sotto accusa sono le grosse flotte provenienti anche dai paesi europei, come Francia e Spagna, o da Usa e Cina, che poi riforniscono le multinazionali alimentari: circa il 60% del pescato mondiale di tonno (tra i 2,5 e i 3 milioni di tonnellate l’anno) viene catturato da queste grosse flotte, e solo il 10% del valore ritorna alle popolazioni degli Oceani Indiano e Pacifico sotto forma di tasse di accesso ai loro mari.