L’ultimo libro di Annamaria Rivera, La città dei gatti. Antropologia animalista di Essaouira (Dedalo, pp. 197, euro 16,50) è un libro difficile. Difficile da accogliere in un’Italia livida di rancori, il più delle volte ingiustificati: scrivere un libro su una piccola città del Marocco dove l’autrice ha rintracciato storie soprattutto di antispecismo è stato un azzardo, ma un azzardo riuscito.

In dieci capitoli e uno splendido apparato fotografico, Rivera narra di Essaouira, affacciata sull’Atlantico: una città «molteplice e cosmopolita», araba, «berbera», portoghese (i portoghesi le diedero il nome di Mogador), ebraica (comunità oggi ridotta a «qualche decina di residenti»), francese e, negli ultimi tempi, gentrificata, con «francesi, tedeschi, italiani ed altri europei» che hanno acquistato diverse abitazioni della medina. Ma a rendere Essaouira oggetto/soggetto di interesse antropologico, soprattutto di quella antropologia antispecista suggerita dall’autrice, è «la presenza di gabbiani e gatti, talmente numerosa da segnare il paesaggio urbano, conferendo alla città un’impronta peculiare, anche estetica».

In special modo la presenza dei gatti, senza di cui Essaouira «sarebbe inconcepibile», consente a Rivera di lavorare con il solito rigore sul rapporto tra animali e umani in un contesto particolare: quello di una città a maggioranza musulmana. Mentre «in Occidente, quasi tutto quel che riguarda il mondo arabo-musulmano è ormai associato, in modo consapevole o per pulsione inconscia, all’integralismo religioso, se non al terrorismo jihadista», Rivera propone una visione che indaga e partecipa – come per esempio nel capitolo Per un’etnografia compartecipe e conviviale, che si nutre dei testi-fondamenta di questo luogo e che celebra lo sguardo lento sulle cose, sugli esseri umani, sugli animali.

Il testo studiato è, ovviamente, il Corano e la letteratura che ne esamina il rapporto con il mondo animale: il testo sacro dei musulmani è, a questo proposito, ambivalente e se da un lato sembra permettere «l’estensione di compassione e misericordia a tutte le creature, anche non umane», dall’altro suggerisce modalità, tra cui il «sacrificio rituale», che vanno in direzione opposta, aggravate dall’attuale «industrializzazione del culto». Però nel caso di Essaouira, città «zoofila», i suoi abitanti aggirano, per esempio, il «tabù dell’impurità del cane con spiegazioni di tipo laico» sulla scia del «metodo concordista che caratterizza l’islam, vale a dire la tendenza a interpretare i testi sacri in modo concorde con la scienza». Se pratiche di uso brutale del mondo animale esistono (come i combattimenti tra cani), esse sono una novità degli anni Novanta oppure un retaggio arcaico («asini bastonati a morte» e altri animali «detti da lavoro o reddito» non sempre rispettati, soprattutto nelle campagne).

Sottoposta a severa critica è però non solo l’ambivalenza del Corano ma quella di tutto un mondo, anche del «nostro», nei confronti dei non umani: si pensi solo a Heidegger per cui «l’animale è addirittura povero di mondo», da cui «l’assioma che Florence Burgat definisce dell’indigenza ontologica’dei non umani». Da questo derivano i peggiori crimini: «se certi gruppi umani sono sterminabili è anche perché numerose specie di altri viventi sono state dichiarate tali e/o sono state e sono di fatto sterminabili» (a questo proposito Rivera richiama l’aforisma 68 di Adorno, dai Minima moralia).

Se il volume è ricco di straordinarie riflessioni per l’oggi – applicabili in un presente che voglia sottrarsi al violento declino mercatista/integralista-, particolarmente forti, perché colme di affettività, sono le pagine che l’autrice dedica alle storie di animali da lei vissute in prima persona, con dono di sé e generosa implicazione: tra queste spicca l’«incontro con Jamel e Fatima», coppia di gabbiani di Essaouira con cui l’autrice ha sperimentato una vicenda di mutuo rispetto, di individuazione e di comunicazione. Tra i tanti regali di questo libro, questo incontro è il più prezioso, insieme ai due paragrafi finali sul «lusso dei poveri»: non populismo ma, da dentro il popolo, una via per uscire dall’odierna aridità umana e politica.