Il Medio Oriente sembra diventato un immenso campo profughi. Chi ha qualche soldo in più, sale su un barcone per l’Europa e si considera fortunato. Come Mahmoud e le figlie, Rose e Jasmine, arrivati in Italia un anno fa. La loro storia l’ha raccolta l’Unchr, poco dopo lo sbarco in Sicilia. Sono siriani, vivevano bene a Damasco, lui era avvocato. La guerra civile lo ha costretto alla fuga, dopo la morte della moglie in un raid: 1500 euro per avere posto in un barcone che dalla Libia li ha portati in Italia.

Mohammed, 23 anni, ha avuto meno “fortuna”. Palestinese rifugiato di Yarmouk, lo avevamo incontrato un anno fa a Gaza City. Aveva trovato rifugio nella Striscia, scappato alla fame che assedia da due anni il campo profughi. Quando parlammo con lui, durante una manifestazione per Yarmouk, non sapeva ancora di essere scappato dalla guerra civile siriana per finire sotto le bombe israeliane dell’operazione Margine Protettivo.

Le storie di Mahmoud e Mohammed sono le storie di 4 milioni di siriani e di 2,7 milioni di iracheni investiti dalle violenze di un conflitto globale mascherato da guerre intestine. Così la Siria ha visto letteralmente scomparire un terzo della sua popolazione: dei 23 milioni di abitanti nel 2011, ai 4 milioni di rifugiati fuori dai confini nazionali si aggiungono altri 4 milioni di sfollati interni.

Ironia della sorte, 250mila siriani avevano cercato la salvezza in Iraq e ora si ritrovano prigionieri di un paese nel caos per l’avanzata dell’Isis. Perché, seppure migliaia siano saliti sui famigerati barconi diretti in Europa, la stragrande maggioranza dei siriani fuggiti negli ultimi 4 anni è stata accolta dal mondo arabo: la Turchia ospita un milione e 700mila profughi siriani, il Libano un milione e 200mila, la Giordania 630mila, l’Egitto 133mila. Un flusso abnorme di profughi che destabilizza anche i vicini, a partire dal Paese dei Cedri che conta solo 4,4 milioni di residenti. Il Libano, nel timore di subire le conseguenze dei settarismi siriani (come se non fosse da mezzo secolo preda dei propri settarismi interni) ha provato a chiudere le frontiere soprattutto ai palestinesi, nella convinzione che questi ingressi diventino una minaccia economica e sociale.

E chi si imbarca per l’Europa? Una minoranza apparente. Mai tanti siriani, iracheni, palestinesi avevano tentato la fuga verso le nostre coste: non immigrati economici, ma profughi di guerra. L’Unchr, l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, tiene i conti: nel 2014 sono state presentate 866mila domande di asilo in Occidente, il 45% in più del 2013. E i più numerosi sono proprio i siriani, 150mila richieste, contro le 69mila degli iracheni.

Già gli iracheni: sotto embargo o guerra da tre decenni, ora pagano lo scotto dei desideri di grandezza del califfato, progetto transazionale che ha travolto anche la Siria e della cui crescita e prosperosità sono direttamente responsabili le strategie occidentali in Medio Oriente e gli interessi degli attori regionali, dall’Arabia Saudita alla Turchia.

I giornali da giugno raccontano di esodi di massa: dal milione di cristiani, sunniti e sciiti in fuga da Mosul quando il califfo entrò nella seconda città irachena ai 200mila sciiti e yazidi scappati da Sinjar. E i numeri degli ultimi giorni fanno spavento: dopo la nuova offensiva islamista contro la provincia di Anbar, dalla città di Ramadi sono fuggiti 90mila residenti.

Le famiglie di Ramadi hanno trovato rifugio a Fallujah e in Kurdistan, ma la maggior parte sta tentando di arrivare alla periferia di Baghdad, seppure le notizie dalla capitale siano contrastanti: secondo testimoni, ai profughi sunniti non è stato permesso entrare in auto a Baghdad dal ponte al-Bzayez, a meno che non abbiamo parenti o amici residenti in città che facciano da garanti. Il governo ha già promesso di cancellare il divieto e di inviare altre armi alle truppe impegnate ad Anbar, mentre fonti governative hanno detto alla stampa che l’esecutivo sta costruendo sei campi profughi nella capitale. Ad oggi, però, solo 10mila persone sono arrivate nella capitale, delle 90mila in fuga.

Intanto a Ramadi si continua a combattere: l’Isis ha assunto il controllo delle zone nord e ovest della città, a poche centinaia di metri dal centro, seminando mine lungo il cammino e colpendo ripetutamente gli edifici governativi. Il timore è che la caduta di Ramadi, cuore dell’instabile provincia di Anbar, possa fare da rampa di lancio per rinnovate offensive verso il resto dei villaggi della zona.