«Quando ero in barca tutti i miei sogni stavano morendo. Ma ora che sono qui mi sento al sicuro, posso di nuovo sognare. Voglio costruirmi una nuova vita». Sami guarda negli occhi i suoi compagni di viaggio e insieme esclamano «Inshallah» (Se Dio vuole). E ridono.

Il pericolo per la propria vita che hanno rischiato viaggiando in mare a bordo di una barca di legno sovraffollata si è concluso. L’attesa che appesantiva l’aria sulla nave di Emergency dalla partenza del 2 aprile si è alleggerita. La Life Support procede così, sul mare piatto, verso Ravenna – la destinazione assegnata dalle autorità italiane come Pos (place of safety) – e le persone familiarizzano tra di loro e con l’equipaggio di soccorso.

IL COMANDANTE Domenico Pugliese dà l’annuncio del prossimo sbarco e aggiunge: «Qui non ci importa da dove venite e chi siete, potete contare di stare al sicuro». Scroscio di gioia e applausi. Un gesto liberatorio per chi da anni aspetta il momento in cui non doversi preoccupare (almeno per un po’) di sopravvivere.

«Dal mio paese è facile ottenere il visto per la Libia, volevo andare lì a lavorare – spiega Sami, originario del Bangladesh – ma non avevo idea di tutte le torture a cui sarei stato sottoposto». La partenza di Sami è costata alla sua famiglia tutti i risparmi che aveva, anche la casa. «I libici li chiamavano e li minacciavano di uccidermi se non avessero pagato. Dopo anni trascorsi così, ora non hanno più niente e vivono per strada». Ma in lontananza un gruppo di persone canta, Sami si volta a guardarli e torna a sorridere: «Cantano perché sono felici di essere liberi».

Diversamente da Sami, Henok, 37 anni, originario dell’Eritrea (paese sotto una pesante dittatura) sapeva quale situazione avrebbe trovato in Libia, «ma non avevo alternative». Accanto a lui c’è un ragazzo minorenne, è tra gli otto minori non accompagnati. Sul braccio ha tatuato «God help me».

Henok è partito nel 2018, sfruttando i confini all’epoca aperti tra Eritrea ed Etiopia. Da lì è passato per il Kenya ed è arrivato in Uganda, dove ha chiesto la protezione internazionale per il Canada. Con il Covid, però, tutta la pratica è saltata. Si è spostato in Sud Sudan per trovare un lavoro. Ma le persecuzioni subite dalle forze dell’ordine e dalle bande criminali lo ha convinto a fuggire ancora, in Libia.

Lì lui e le quaranta persone con cui viaggiava sono stati intercettati dalla polizia libica e sono stati portati in un centro con altre 400 persone. «Non so come si possono chiamare quei posti, carcere, lager, a me non importa la parola. Quello che rimane sono i fatti: quel posto è illegale». Dopo aver tentato di sfondare tutti insieme la porta, le forze libiche li hanno torturati per giorni. Per mesi il suo gruppo è stato fatto spostare avanti e indietro, tra il Sud Sudan e la Libia, come una pallina da ping pong al battito di promesse di tornare indietro. Ma la destinazione non arrivava mai.

«DOVEVAMO ripagare ogni volta, alla fine ho pagato oltre 8mila euro per il mio viaggio», racconta Henok. È stato reso, di fatto, una merce di scambio tra trafficanti di esseri umani. «Lì abbiamo capito che l’obiettivo primario per cui ci avevano trattenuti era commerciale».

Ora che è salvo vuole far sapere al mondo cosa accade in Libia, dove è rimasto per sette mesi, «perché ci sono ancora troppe persone che in questo momento soffrono». E vuole spronare «soprattutto l’Unhcr a entrare veramente nel territorio per vedere cosa accade, quelli con indosso la maglietta dell’Unhcr sono in realtà libici e fanno accordi tra di loro, oltre a non fare niente quando le persone vengono vendute, torturate e perseguitate»