È iniziata la resa dei conti tra le istituzioni turche. Le responsabilità nella strage di Ankara costate la vita a 106 persone, il bilancio continua a crescere, sono complesse e a vari livelli. Intaccano la zona grigia che include Servizi segreti (Mit), polizia e militanti jihadisti.

Il ministro dell’Interno, Selami Altinok, che ha promesso di dimettersi il giorno dopo il voto del primo novembre, ha preso ieri provvedimenti clamorosi, probabilmente costretto dalla grande protesta popolare che continua in tutta la Turchia. Ha sospeso i capi della polizia, dell’Intelligence e della Sicurezza pubblica di Ankara. Prima che la strage faccia cadere una ad una troppe teste, inclusa quella del presidente Erdogan, colpito dal fuoco incrociato delle polemiche politiche, la polizia turca ha iniziato a controllare anche il flusso di jihadisti, per oltre un anno lasciati indisturbati, al confine turco-siriano.

In un solo giorno 17 persone sono state arrestate perché tentavano di entrare in Siria per unirsi allo Stato islamico.

Sul fronte delle indagini, il cerchio si stringe intorno agli affiliati di vari gruppi jihadisti tra cui Isis. I due kamikaze che si sono fatti saltare in aria davanti alla stazione di Ankara lo scorso sabato sono stati identificati. Uno di loro, come era stato anticipato dalla stampa locale, è Yunus Emre Alagoz, fratello di uno dei kamikaze che si sono fatti saltare in aria al centro Amara di Suruç.

Il secondo è Omer Deniz Dundar. Quest’ultimo era nella lista di 21 possibili kamikaze, anticipata martedì alla stampa dal premier ad interim, Ahmet Davutoglu. I due attentatori sarebbero arrivati ad Ankara dalla provincia sud-orientale di Gaziantep (Kurdistan turco) con due diversi veicoli e con l’aiuto di un complice, arrestato nei giorni scorsi insieme ai proprietari dei veicoli. Le forze di sicurezza turche avevano ritrovato sul luogo della strage una carta di identità che sarebbe appartenuta a uno dei due kamikaze.

La polizia turca ha arrestato anche due persone che poche ore prima della strage avevano scritto su Twitter che ci sarebbe potuto essere un attacco. Le autorità turche sostengono che i due abbiano legami con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). I vertici del partito di Ocalan si sono divisi sull’opportunità di proseguire o meno con la lotta armata in seguito agli attentati di Suruç. La tempistica con cui è stato annunciato il cessate il fuoco dei combattenti kurdi dopo l’attentato di Ankara è sembrata rivelatrice di questa incerta strategia da intraprendere per rispondere alla sanguinosa campagna anti-Pkk, voluta dalle autorità turche da almeno tre mesi.

Per spegnere i riflettori sulla pista interna, che resta senza dubbio la più accreditata, Ankara continua a mostrarsi preoccupata dagli strettissimi rapporti tra Pkk e Partito democratico unito (Pyd) in Rojava. Il ministero degli Esteri turco ha convocato gli ambasciatori di Stati uniti e Russia per contestare il sostegno fornito da questi paesi alle milizie kurde. Secondo le autorità turche, le armi fornite da Mosca e Washington ai miliziani kurdi in Siria potrebbero essere usate dal Pkk. «Si tratta di una questione di sicurezza nazionale», aveva detto Davutoglu nei giorni scorsi. A essere contestato è il lancio di materiale logistico al Pyd da parte di un aereo cargo Usa lo scorso 11 ottobre. I combattenti siriani Ypg/Ypj sono stati essenziali per arginare sul campo lo Stato islamico e hanno ottenuto un certo sostegno da parte della coalizione internazionale anti-Isis, guidata dagli Usa.

«La questione siriana può crescere e portare in un vortice la regione e il mondo intero», ha detto Erdogan. «Chiunque intervenga in Siria non può ignorare questo particolare», ha aggiunto. Per Erdogan Isis e Pkk – e chi li promuove (la sinistra filo-kurda Hdp) – sono la stessa cosa. Su questo punto, Davutoglu ha aggiunto che affiliati del Pkk e del Fronte della sinistra radicale (Dhkc-p) sono stati addestrati nel Nord dell’Iraq prima di agire in Turchia. Con queste parole, le autorità turche ammettono implicitamente in verità di trovarsi isolate sia rispetto agli attacchi Usa sia in riferimento ai raid russi in Siria. La creazione di una safe-zone nel Kurdistan siriano, con l’avallo della Nato, era il progetto turco per mettere le mani su Rojava e fermare l’avanzata dei combattenti kurdi. Ma i raid russi in Siria hanno fermato le mire turche.