Non finisce di stupire un cinema di ricerca fatto di riscoperta dei territori, di scavo nella «verità nascosta» dei luoghi. C’è una vasta letteratura ormai sull’argomento ma ci sono anche pericoli in agguato: l’uso reazionario (ce n’è anche uno rivoluzionario) di quella potente espressione umana che è la nostalgia; la tentazione di guardare troppo indietro; la rimasticatura di un sud «dell’anima» spesso lontano anni luce da quell’anima stessa che si vorrebbe portare in superficie. In Montedoro, l’ultimo film del regista lucano Antonello Faretta, questi pericoli sono presenti, ma anche superati in un teso corpo a corpo tra vecchio e nuovo, ed è quindi un’opera che si guarda con la curiosità di aprire uno scrigno, sicuramente un film che lascerà il segno. Non solo per i paesaggi struggenti (sebbene anche), non solo per Craco, paese del materano abbandonato per una frana agli inizi degli anni 60 del secolo scorso, una location mitica che tutti (almeno quelli che frequentano questi luoghi da più di 40 anni) ammirano e che è il vero protagonista di questo film col nome di Montedoro; non solo per gli interpreti calati benissimo nella parte (dalla protagonista principale Pia Marie Mann che si espone coraggiosamente in una interpretazione autobiografica, alla recitazione «straniata» del poeta e performer lucano Domenico Brancale, a quelle intense di Caterina Pontrandolfo, Anna Di Dio, Joe Capalbo); ma proprio per gli squarci di apertura sul futuro che un’antropologia filmica rinnovata può aprire con un film del genere.
Montedoro è un lungometraggio (90 minuti) dove il vecchio adagio di Carlo Levi nel Cristo si è fermato a Eboli – «è New York non Roma la capitale dei contadini meridionali» diceva lo scrittore quando vedeva nelle case le foto che gli emigranti avevano mandato dall’America – si capovolge nel suo contrario. Qui è la protagonista del film, figlia dell’emigrazione, che fa il salto indietro da New York al paese, oppressa da un’angoscia che la lacera. Si potrebbe dire, con Levi, che è una persona alla ricerca di una «capitale» che dia un senso alla sua vita.
La protagonista di Montedoro, donna americana di mezz’età scossa per la morte dei genitori ma soprattutto perché ha saputo che era una figlia naturale di una signora rimasta al Sud, torna nel paese della madre per sapere di lei. Ma vi ritrova uno scenario apocalittico. Il paese è stato abbandonato da anni e corroso da una distruzione inesorabile. È ridotto a un fantasma, come del resto la vita della protagonista. Solo che è un fantasma che parla attraverso la recita, «cristallizzata» nel tempo, di un gruppo di persone rimaste pervicacemente ad abitare ai margini del borgo. Un gruppo che fa rinascere nella protagonista sogni ed incubi, i miti dell’Italia meridionale di un tempo come oppressione e orrore, ma anche come forza primigenia della natura, come principio attivo di un mistero dell’esistenza che può aiutare, e che la donna sembra ritrovare alla fine del film. Forse il viaggio è servito, forse le persone care ci sono «per sempre», forse Montedoro è più vivo che mai se è capace di risvegliare i dolori, di aiutare ad affrontarli e liberarsene. Il film di Antonello Faretta, sorta di «seduta psicanalitica» en plein air, è un melò sull’Italia perduta, ricco di camei simbolici, con un innesto sapiente di spezzoni di video d’epoca e con uno splendido funerale-catartico finale. È già andato al Festival del Cinema di Atlanta negli Usa e presto seguirà una scaletta di presentazioni in vari altri festival. Il regista lucano, 43 anni, che è anche operatore culturale, ha al suo attivo cortometraggi che hanno scandagliato il tempo di un universo mitico e che sono stati presentati in festival e rassegne d’arte. Da ricordare, fra gli altri, Nine poems in Basilicata,
il video poema cinematografico su John Giorno, l’ultimo poeta della beat generation ritornato nel luogo d’origine della madre, Aliano, a recitare ballate fra i paesaggi della regione. Su questo suo ultimo film, ma primo lungometraggio, Faretta dice: «Il viaggio a Montedoro è anche una ricerca filmica su di un territorio che è un connubio straordinario tra antico e moderno. Una ricerca su me stesso aiutata da questo incontro con Craco e con una persona speciale, Pia Marie Mann. Mi sono imbattuto in Craco nel 2006 quando cercavo le locations per il mio film con John Giorno. Da allora non mi ha più abbandonato come metafora della decadenza inesorabile in cui non solo quel paese ma l’Italia intera sembra condannata. E cercavo l’occasione per farvi un documentario». «Un giorno – continua il regista – sono stato contattato da uno dei membri della Craco Society, un istituto di italo americani che vivono tra New York e il Canada. Naturalmente io non sapevo nulla di questa comunità di discendenti crachesi in terra americana. Era il 2008 e una delegazione di questo istituto venne in viaggio a Craco. Lì ho conosciuto Pia Marie Mann e la sua storia. Pia, nata a Craco da genitori crachesi, cercava la madre naturale di cui aveva perso le tracce dopo che questa cinquant’anni prima l’aveva data in adozione ad una famiglia americana. È stato l’incontro con Pia a liberare dentro di me il film che volevo fare da anni su Craco». E in Montedoro le cose più belle sono proprio quelle che nascono dalle scintille tra una persona viva ma in crisi di senso e un paese morto che sta lì a parlare se solo tu lo vuoi ascoltare. Nulla è perduto se uno ha fede nel futuro, sembra raccontarci la storia di Pia e Craco, uno strano matrimonio che può rimescolare la vita di ognuno. E non era forse Pier Paolo Pasolini a ricordarci, di fronte al crollo di un mondo, la «scandalosa forza rivoluzionaria del passato»?