Un rapido passaggio udinese, nella stagione Contatto del Css, ha mostrato ancora una volta in Italia quello che forse è stato lo spettacolo più interessante dell’ultima Biennale teatro, nell’agosto scorso. E se elas fossem para Moscou? è una rilettura delle Tre sorelle cechoviane, che smaniano tutta la loro vita (scenica) all’idea di trasferirsi a Mosca. A compierla è una regista, e in questo caso «autrice», brasiliana, Christiane Jatahy. Nata a Rio e con un gruppo tutto carioca, sta ora preparando una nuova creazione in Francia, dopo aver condotto proprio qui a Udine e nelle città europee collegate, l’annuale sessione della Ecole des maîtres l’autunno scorso.

 
Jatahy usa un procedimento scenico non nuovissimo ma che lei rende originale: il pubblico, diviso in due parti, assiste alla «versione teatrale» del lavoro e, subito prima o subito dopo, a quella cinematografica su grande schermo. L’apparente bizzarria sta nel fatto che le due «versioni» sono in realtà identiche, oltre che contemporanee, per quanto riguarda gli attori e i movimenti. È il salto tra i due linguaggi a fare la differenza, del resto consistente, di senso e di percezione. Il contatto ravvicinato tra pubblico e interpreti, tutti sul palcoscenico, spinge ad alte temperature il dramma e la vitalità di quelle tre creature.

 
Irina, Olga e Maria (una Mascia liberatasi della sua russità) dilatano il tempo del ventesimo compleanno della prima. In quell’unica notte consumano desideri e frustrazioni della loro intera vita, non solo quella scenica. In quella notte che è lo spettacolo (90 minuti circa per ognuna delle due parti) viviamo l’indagine quasi esaustiva sulla loro vita reale e su quella desiderata. Entriamo in qualche modo nelle motivazioni più profonde di quel cambiamento che non arriva mai a realizzarsi, nelle loro paure e nei loro sogni.

 
Tanto la parte teatrale è diretta e sovrabbondante, carnale e coinvolgente (perfino con dolci e bevande della festa condivisi col pubblico),all’apparenza quasi sul rischio della dispersione, altrettanto quella cinematografica è secca e lancinante, essenziale quanto crudele nelle immagini formalizzate che ci giungono dallo schermo che coincide con il sipario che chiude il palcoscenico. La selezione e la modalità della proiezione cinematografica orientano e fissano il racconto di quelle infelicità in maniera quasi «definitiva», dando davvero a quelle tre sorelle una attualità non tanto formale (per i telefonini o per gli abiti degli invitati), quanto sostanziale, quasi concreta, tanto il dolore si fa tangibile nella sua rappresentazione.

 
Simmetricamente, chi assiste alla messinscena teatrale dopo aver visto la versione filmata «in tempo reale», ha modo di scoprire con i propri occhi cosa è un set cinematografico, il potere della sua finzione, il taglio e l’ordine che l’autore ne può ricavare. O perfino anche l’arbitrarietà che ogni scelta può comportare. Non perché sia importante capire didascalicamente come nasce «quel» film, quanto per il segnale all’attenzione da prestare ai linguaggi che i media oggi moltiplicano.
Tutto questo rischia di apparire solo farraginosa teoria, e ci si potrebbe chiedere dove sia andato a finire il capolavoro di Cechov. Le parole non saranno più quelle del maestro russo, ma non è solo l’essenza del dramma che lui ha scritto a restare viva sulla scena.

 
In maniera molto forte Christine Jatahy fa proprie, e nostre, quelle vicissitudini, il dolore dei sentimenti e il piacere del gioco anche più infantile. Le tre interpreti (Isabel Teixeira, Julia Bernat, Stella Rabello) sono grandiose nel condurci nei meandri delle loro passioni e delle loro lacrime. Come tutta la compagnia: interpreti che sono contemporaneamente attrezzisti, macchinisti, o operatori alla macchina di ripresa, come l’eroico interprete del fatuo Verscinin, che per la sua cinepresa abbandona Mascia dopo un focoso amplesso.

 
Vengono in mente altre «riletture» di classici a cui siamo abituati sulle scene italiane e non solo, dove il senso finale prevalente è quello del compiacimento del regista nel piegare un testo, classico o meno, per rappresentare fondamentalmente se stesso. La riscrittura dell’artista brasiliana, in questa moltiplicazione tra teatro e cinema, ha il merito di riuscire a coinvolgere ogni spettatore nella gloriosa e infelice famiglia delle Tre sorelle cechoviane