La banalità del «triplice» triplo oro di Usain Bolt o la squalifica che il velocista giamaicano meriterebbe però come cantante, per come ha maltrattato One Love di Bob Marley durante un’intervista. David Kotoatau e la sua danza ambientalista per salvare Kiribati a ogni peso sollevato, la rabbia ovattata del badminton, il taekwondo che ragala alla Costa d’Avorio il suo primo oro olimpico. Oppure il corpo contundente della ginnasta Simone Biles, i cinesi tornati sulla Terra anche se nei tuffi continuano a fare i marziani, il piagnisteo di Neymar dopo i rigori o il gesto del “7” con cui il tedesco Bauer ha ricordato alla torcida del Maracanã com’era finita in quello stesso stadio agli ultimi Mondiali. Ognuno scelga cosa ricordare dei XXXI Giochi di Rio e se lo tenga stretto, almeno fino a Tokyo 2020.

2016 Rio Olympics - Athletics - Final - Men's 4 x 100m Relay Final - Olympic Stadium - Rio de Janeiro, Brazil - 19/08/2016. Usain Bolt (JAM) of Jamaica celebrates winning the Jamaican team's gold medal. REUTERS/Kai Pfaffenbach TPX IMAGES OF THE DAY FOR EDITORIAL USE ONLY. NOT FOR SALE FOR MARKETING OR ADVERTISING CAMPAIGNS.
il velocista giamaicano Usain Bolt, tre ori per tre Olimpiadi consecutive

 

Per il resto solite bandiere, inni nazionali, giochi di squadra o uomini soli al comando, stesso mantra su trasporti e infrastrutture. E poi un uso politico della giustizia sportiva, «bombe» da 3 punti, schiacciate «devastanti», salti «esplosivi», sacrificio e cattiveria agonistica, onore e gloria, bottini di «guerra» che qui vengono chiamati medaglieri… Se non è un campionario metaforico di tutto quello per cui si è ancora disposti a uccidere, nel mondo, poco ci manca.

Le Olimpiadi, spettacolo a vocazione televisiva, si rilanciano anche a Rio come una colossale installazione di gesti e di forme, un contenitore di storie di sport e storie di vita, inscritte però all’interno di dinamiche bloccate tra il delirio degli orgogli patrii da un lato e il mercimonio globale delle sponsorizzazioni dall’altro.

I Giochi che non rinunciano comunque a proporsi come rassicurante lavacro della coscienza collettiva, con velleità persino riparatorie rispetto ai guasti del mondo. Davvero ispirano una sorta di tregua olimpica, se non altro dei cattivi pensieri, di quelli che vengono inevitabilmente a volersi informare troppo su dove va il mondo. O a guardare in alto, verso le favelas di Rio.

C’è Israele e c’è la Palestina, ma in forme direttamente proporzionali alla contingenza amara dei fatti, con le autorità israeliane che fino all’ultimo hanno reso la vita difficile alla delegazione “nemica” in partenza per il Brasile. Diritti da quelle parti ne vengono calpestati tanti, ma quello allo sport semplicemente non sembra essere contemplato dalle regole dell’occupazione.

Questa volta con le rappresentative degli stati da cui si tende generalmente a fuggire, c’era pure la “nazionale” dei rifugiati, un modo brillante per ricordare a tutti che il riscatto dello sport e la sua capacità di scartare dalla realtà possono arrivare a tanto. Li abbiamo però visti a malapena sfilare, battevano bandiera olimpica coi cinque cerchi. Non quella nera dell’Isis, che molti dei loro fratelli si saranno sentiti a un certo punto di rivalutare, dopo esserne scappati il più lontano possibile, di fronte ai muri e al vacuo sventolare di quella europea.

 

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Yusra Mardini, Olympic Refugee Team

 

Per sfilare, hanno sfilato tutti. La prima volta della Libia dopo Gheddafi e la prima volta dello stato più giovane del mondo, il Sud Sudan. Due storie di avvento ma mica tanto liete, tanto più che a Sirte e a Juba il segnale tv dello spirito olimpico da Rio arrivava molto disturbato. C’erano anche la Siria, l’Iraq e lo Yemen, come se niente fosse. Mancavano solo le combattenti kurde del Rojava, scaricate da tutti e forse a questo punto anche dal Cio, anche se non è da escludere che in futuro potranno avere la loro delegazione ufficiale: gli atleti provenienti dai ranghi delle forze armate in certe specialità sono già maggioranza. Ma certo, prima ci vorrebbero uno stato e una bandiera. Auguri.

Ma dicevamo «Olimpiadi, femminile plurale». E così è stato. Per paradossale che possa sembrare, ha vinto la parità. Ne sa qualcosa il portabandiera di Tonga, complice l’eccesso di olio spalmato sui muscoli, trattato alla stregua di un bambolotto sexy dalle inviate della Nbc. E lo ha capito sulla propria pelle l’allenatore della giapponese Risato Kawai. Oro nella lotta libera, categoria 63 kg, la ragazza teneva in serbo per lui l’ultima mossa: eccolo il coach che corre  incontro alla sua campionessa per festeggiarla, ma invece di unirsi a lei nel classico abbraccio viene sbattuto al tappeto senza tanti complimenti. Il successivo giro d’onore “a cavacecio” completa il quadro, che però qui è di manifesta superiorità.

 

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Sul filo del traguardo, a rendere le Olimpiadi uno spettacolo ancora inebriante resta solo quella variabile impazzita, il combinato disposto di talento, tenacia e fattore c. che può sempre irridere gli enormi investimenti economici fatti a monte e rovesciare d’improvviso le sorti di una gara. Sorti altrimenti scritte con abissali asimmetrie di partenza. E di arrivo.