Forse il miglior film italiano della settantaduesima Mostra del Cinema di Venezia è un documentario e viene dal Fuori Concorso. I ricordi del fiume è il racconto che Gianluca e Massimiliano De Serio costruiscono intorno allo smantellamento dell’enorme campo del Platz, nella periferia nord di Torino; un azzeramento radicale che dopo quasi quattordici anni di esistenza, spiana una baraccopoli divenuta nel tempo ben più di un semplice insediamento precario.

Gianluca e Massimiliano De Serio, fratelli gemelli, nonostante la loro età (sono nati nel 1978), hanno già alle spalle una lunga esperienza iniziata alla fine degli anni Novanta, sancita nel 2011 dall’esordio nel lungometraggio di finzione con Sette opere di misericordia e che si versa ora in questo nuovo cimento con inedita efficacia. I ricordi del fiume sembra in questo senso il punto in cui fin qui più felicemente si coagulano principi etici, ricerca estetica, meccanica narrativa e istanze politiche. E non è certo casuale che alla costruzione di questo discorso organico, complesso ma anche mirabilmente elementare che si costruisce secondo le forme di un racconto quasi fiabesco sia il cinema documentario a fornire strutture e processi. In uno dei più originali e più profondi ritratti che il cinema europeo contemporaneo abbia saputo dare dei rom e della loro vita resistente, scomodamente in dissidio con le civiltà urbane figlie della borghesia occidentale, i gemelli De Serio sovvertono il sistema dei preconcetti consolidati, dei punti di vista arrugginiti, dei ruoli previsti e dei clichè confermati, immergendosi, tutti interi, dentro un universo parallelo, senza perdere mai la lucidità su di sé, ma abbandonandosi al contempo agli occhi e ai corpi dei loro interlocutori, lasciandosi guidare nei meandri di questo labirinto come due infanti capaci di stupore e meraviglia, sempre un po’ in soggezione ma anche mossi da temeraria curiosità.

Gianluca e Massimiliano hanno costruito negli anni una consuetudine nella divisione del lavoro che vale anche quando si tratta di rispondere alle domande di un’intervista: nell’alternanza tra i due è Massimiliano il più loquace, ma Gianluca sa attendere il momento per entrare nella conversazione con lampi d’inattesa eloquenza.

Tecnici umanisti completi, i due torinesi ci tengono a raccontare anche del loro progetto di formazione, del quale sono particolarmente orgogliosi: Il Piccolo Cinema, “Società di mutuo soccorso cinematografico”, è un luogo dove si guardano film, programmando insieme al pubblico un palinsesto condiviso, e dove si educano e sperimentano nuove leve delle professioni del cinema (“quelli che escono dal nostro laboratorio lavorano tutti”). La troupe del film viene in buona parte da qui.

In tutti i vostri film torna un elemento che ne I ricordi del fiume è forse anche più forte: l’intima distanza che s’immagina tra i vostri occhi, il vostro corpo, la vostra presenza in un certo luogo e le persone che riprendete. Questo c’entra con la scelta di lavorare sempre con personaggi “ai margini”?

Massimiliano: Confermo, ma preferisco ribaltare la questione. La scelta di lavorare con persone che sono sradicate dalla propria terra e dalla propria cultura o sono alla ricerca di una propria identità in un contesto di marginalizzazione non è una scelta aprioristica; è il frutto naturale di una nostra propensione a parlare di ciò che conosciamo. Viviamo in un quartiere alla periferia nord di Torino che è sempre stato un quartiere d’immigrazione; la nostra famiglia ci è arrivata negli anni Sessanta. Oggi è abitato da quelli che si chiamano i “nuovi immigrati”, i nuovi cittadini italiani.

L’intima distanza allora è intima ma anche rispettosa perché pensiamo di capire, proprio perché appartenenti a un contesto comune, quanto rispetto ci vuole per raccontare queste storie. L’intimità viene dall’essere partecipi insieme a loro di queste storie. Senza la pretesa di volerne raccontare ogni minimo dettaglio, di poter raccontare l’interezza di una vita.

Gianluca: Nella consapevolezza che noi non siamo loro. In questo c’è anche un nostro tentativo di evitare una certa ruffiana immedesimazione. Quindi la distanza sta anche nel dover conservare riconoscibili i nostri ruoli: noi siamo due registi che stanno facendo il loro film. Allo stesso tempo siamo con loro, siamo vicino a loro.

C’è da parte vostra anche la ricerca in loro di uno sguardo vergine, nuovo o per lo meno decentrato su di noi, sul nostro paese?

Gianluca: Sicuramente il fatto di raccontare da un certo punto di vista laterale per noi vuol dire anche gettare uno sguardo diverso su noi stessi. Come uno specchio nel quale non siamo abituati a guardarci, perché in effetti tutti i nostri film parlano sempre anche di noi, del nostro sguardo.

Massimiliano: In fondo questo sguardo laterale ci permette anche di assecondare l’intima distanza di cui parli tu. Ci permette di entrare nelle stanze, nelle case, nelle baracche, nelle strade di questo luogo, dentro queste vite con passi discreti e vicini. La frontalità del cinema è già di per sé molto aggressiva: a questo punto, forse anche per agevolare una presa di posizione critica nello spettatore con il quale noi ci identifichiamo sempre, cerchiamo uno sguardo meno assoluto, che si mette più in dubbio, meno comodo anche, più partecipato. Dobbiamo avere un approccio laterale, il che significa anche mettersi di fianco a qualcosa, non per forza di fronte. Non è una questione solo estetica, ha anche un senso etico: essere al fianco di.

Un’altra costante che qui torna in modo forte è il ruolo centrale e speciale che nei vostri film date ai giovani, ai giovanissimi, agli adolescenti in modo particolare, e anche ai vecchi. Gli adulti hanno sempre un ruolo defilato o sono guardati con maggior distanza.

Massimiliano: Sui ragazzi e i giovani adulti abbiamo iniziato un percorso fin dai primissimi corti. Ci piace raccontare gli adolescenti e i giovani perché ci sembra che da una parte siano il simbolo di uno sradicamento dentro la società contemporanea occidentale, dall’altra che rappresentino anche la perenne ricerca di un’identità.

Quel che c’interessa degli adolescenti e dei vecchi è una comune tensione al cambiamento dovuta alla perdita di qualcosa. Nel caso dei vecchi il futuro, il nuovo approdo è una meta invisibile, dunque qualcosa di molto cinematografico. La sospensione del cinema ci ha sempre interessato e sia gli adolescenti che i vecchi sono esseri sospesi. Un adulto invece ha acquistato delle certezze e vive in questa illusione di realtà, di concretezza, di certezza.

L’incipit de I ricordi del fiume mi sembra molto importante e molto inconsueto. È notte, è buio, si prepara il fuoco, si cucina, e dentro questo preciso orizzonte siamo guidati dalla figura di un bambino. Come se si stesse per entrare in un sogno o forse anche di più nell’atmosfera della fiaba della buona notte.

Massimiliano: Sì, be’, interessante che tu l’abbia presa così perché è così che l’abbiamo intesa noi. All’inizio del film c’è un piano sequenza sul bambino che si aggira tra le baracche, di sera. È come se il bambino, in questa passeggiata iniziale, stesse attraversando il paesaggio del film: il Platz è anche questo bambino, è davvero il suo punto di vista, è il mondo che sta creando lui, portandoci dentro al campo. L’entrata in un mondo che non è quello della luce, della chiarezza, della certezza, ma all’opposto della penombra, delle luci soffuse. Il mondo proprio del cinema. Il film finisce con una ninnananna. È come se rimanessimo sempre dentro questo luogo sospeso.

Gianluca: All’inizio il bambino ci guida come attraverso un luogo fantasma dove quasi non si percepisce la presenza di altri esseri umani. Le baracche sono ancora tutte in piedi, siamo al tramonto. Poi, tutt’a un tratto fa un salto e, un po’ come Alice nel paese delle meraviglie, ci butta all’improvviso dentro questa realtà notturna. Alla fine, dopo il viaggio all’interno di questo labirinto che è il Platz, rivediamo lo stesso bambino che passeggia, di nuovo nello stesso posto dell’inizio del film, ma stavolta in mezzo alle macerie. È già notte. È come se fosse stato un grande ricordo, come se lui avesse raccolto questi frammenti di memoria e li avesse portati nella notte, nel sogno. Per questo secondo noi è importante aver cominciato il film con un bambino: perché ci ha aiutato a entrare in una dimensione del racconto che ha a che fare anche con la dimensione magica. Infatti il film dopo un po’ si spappola, si decostruisce, come se emergessero isole della memoria.

Torino la si vede appena, la si vede come separata ed esterna a questa baraccopoli. Mi pare ci sia un’idea molto forte del Platz come di una seconda città molto coerente e molto densa al suo interno. La stessa impressione l’ho conservata anche quando si passa dalle baracche agli appartamenti, che sembrano quasi delle navicelle galleggianti rispetto al resto del tessuto urbano che gli sta intorno.

Gianluca: Sì, è proprio così. Cerchiamo di uscire pochissimo dal campo: quando i bambini vanno a scuola, al Luna Park – ma in questo caso non si tratta della città in senso stretto, è un altro un universo quello – e poi usciamo per andare “a bidoni”.

Di fatto la loro vita nella città si confronta solo con spazi che possiamo chiamare “sociali”, come la scuola per i bambini, oppure con gli spazi di lavoro. Poi ci sono le case, che sono prima di tutto sul piano visivo, cromatico, delle celle: abbiamo cercato di renderle monocromatiche, molto più sbiadite rispetto al campo che invece è molto più vivido. Sono come delle gabbie dalle quali non si vede l’esterno: c’è una netta separazione tra loro e il mondo fuori. E quando il mondo esterno viene evocato, è quasi per prendersene gioco, per rimarcare una distanza.

Massimiliano: C’è un altro momento in cui i nostri protagonisti escono dal campo, ed è quando riprendiamo le due signore anziane che parlano sedute in auto, sembrano quasi fluttuare nel vuoto: è tutto bianco bruciato intorno alle loro teste, mentre parlano di quel breve viaggio solo attraverso l’enumerazione delle fermate dell’autobus che porta al campo. Come se veramente lo spazio della città fosse sempre e solo misurato in relazione al Platz, come se non ne uscissero mai. Quasi vivessero su penisole collegate alla terraferma, ma la terraferma è il Platz. L’unica scena che guarda al Platz dall’esterno è girata sul fiume lungo il quale si sviluppa la baraccopoli, ed è come se stessimo guardando una fortezza dal mare. Un’immagine strana, come se la polizia stesse controllando da fuori i bastioni di una città fortificata.

Ginaluca: Ora che il Platz è stato ufficialmente distrutto, non ci sono solo i vecchi abitanti che stanno tornando a costruirsi nuove baracche, ma addirittura persone nuove, che arrivano al campo per la prima volta. Siamo passati di lì qualche giorno fa e abbiamo visto persone che non avevamo mai incontrato prima.

Massimiliano: Il Platz è sempre stato come una calamita.

In questo più che in altri film precedenti, mi pare che la vostra permanenza intorno alle persone che avete raccontato sia stata fondamentale.

Guanluca: Sì, certo, è stata fondamentale. Perché non si può pensare di raccontare una trasformazione, un cambiamento radicale semplicemente stando lì una settimana, o facendo delle interviste. Per noi si è presentata subito un’urgenza: non abbiamo aspettato di avere una produzione, siamo andati lì con degli amici collaboratori del Piccolo Cinema e ci siamo subito detti che dovevamo girare. L’atto di filmare nel nostro lavoro, sempre e questa volta ancora di più, è un atto di conoscenza: le due cose sono sempre andate insieme. Per questo non possiamo fare altro che dedicarci a una presenza fisica, a una frequentazione.

La videocamera compare dal primo incontro o aspettate del tempo prima di tirarla fuori?

Gianluca: Ci siamo subito presentati come due registi con la loro troupe. La prima volta siamo andati di notte, senza conoscere nessuno. Ci hanno accolto con una bella festa, c’hanno offerto da bere, della musica e noi abbiamo anche fatto un po’ di riprese. Per loro era la prima volta che persone sconosciute entravano nel campo di notte. L’hanno vista come una cosa strana ma anche come un atto di fiducia da parte nostra. Non è stato facilissimo far loro capire che cos’è un film e in particolare che cos’è un nostro film. Ci siamo avvicinati in modo intensivo ma selettivo: ci siamo concentrati su una piccola area che è il settore tre, il primo a essere interessato da questo processo di smantellamento e trasferimento. Lì abbiamo stretto relazioni attraverso le quali abbiamo conosciuto altre famiglie e così, passo dopo passo, ci siamo inoltrati nella baraccopoli.

Prendendo spunto dalle molte inquadrature che nel film riprendono le spalle delle persone che osservate, considerato che forse non sono sempre consapevoli di quel che fate intorno a loro, come avete risolto il rischio di fare un film “alle loro spalle”?

Massimiliano: A un certo punto un personaggio del film dice: “siamo un po’ come le lumache, ci portiamo la casa sulle spalle”. Per noi seguirli in questo modo è un po’ come ci portassero proprio sulle loro spalle. Nel film però c’è un ribaltamento del punto di vista: per noi ogni film è un percorso insieme ai protagonisti ma è anche un graduale ribaltamento del punto di vista al quale cerchiamo di portare anche gli spettatori. Nel finale del film, a un certo punto il bambino si gira, ci viene incontro, siamo vicinissimi, poi si specchia in un coccio – in un ricordo – un pezzo della porta di casa sua (noi l’abbiamo tagliata quella battuta, ma lui lo diceva: “questa era la porta di casa mia”). Al di là di quel che lo spettatore sa, è interessante quel che sa il protagonista: è davanti a un frammento del suo Platz, della sua vita, dentro il quale si specchia. La sua immagine riflessa però è anche ribaltata. Questo ribaltamento finale è un ribaltamento del nostro punto di vista ma anche del suo – la sua immagine è quella di un gigante capovolto che si staglia contro il cielo. È la prima volta che vediamo il cielo sul Platz, e questo succede attraverso il riflesso in un piccolo frammento. È proprio quello che vuol fare questo film: attraverso una serie di frammenti di ricordi, ai quali noi stiamo faticosamente dietro, cerchiamo di acquistare una frontalità rinnovata, nuova, obliqua, più discreta, più intima, non aggressiva. In questo senso entriamo nel Platz di spalle. Il percorso che segue la camera è narrativo da una parte ed etico dall’altra.

Gianluca: Evidentemente all’inizio siamo un po’ più distanti, poi gradualmente si acquista più confidenza e ci avviciniamo, arriviamo al fianco, fino a raggiungere un nuovo sguardo che è anche il loro sguardo nei nostri confronti. Non è che solo perché siamo noi ad avere una camera siamo solo noi a guardare loro: sono anche loro che ci guardano. Anzi, il loro sguardo nei nostri confronti modifica il modo in cui li guardiamo e viceversa.

Due aspetti mi sembrano i più espliciti e più forti sul piano delle scelte estetiche e di linguaggio: da una parte, in tutto il vostro cinema l’uso del long take e del piano sequenza. E poi la luce: spessissimo usate il controluce, la luce contrastata, inquadrature in cui l’ombra serve molto a scrivere quel che resta visibile ed esposto alla luce.

Gianluca: Questo film è più montato di altri che abbiamo fatto in precedenza. In generale il piano sequenza e l’inquadratura lunga ci permettono di dare la sensazione forte della nostra presenza. Ci sono poi alcuni gesti che le persone che decidono di mettersi in gioco davanti alla macchina da presa fanno naturalmente, inconsapevolmente, che soltanto attraverso uno sguardo prolungato possono essere colti. Il gesto della vecchia Ana che sposta un dito della mano, un dettaglio quasi insignificante nel fluire della vita quotidiana, ripreso dalla videocamera in un tempo lungo, conservandone l’ampiezza, la portata, assume un’importanza incredibile, quasi spirituale. Diventa il suo gesto. Per far sì che si sedimenti nella memoria dello spettatore è fondamentale dare a questo gesto dello spazio, e lo spazio nel cinema è il tempo. L’identità di una persona, una volta catturata in questa gabbia che è il cinema, diventa l’insieme dei suoi gesti. Il tempo è quindi fondamentale. È uno strumento di sopravvivenza.

C’è un percorso della luce in tutti i nostri film. In Sette opere di misericordia la luce è un personaggio, ha addirittura un suono. Anche ne I ricordi del fiume c’è un percorso della luce: mentre andiamo verso il crepuscolo finale, la distruzione del campo, lo smantellamento di questo universo, cerchiamo di catturare la luce dentro l’inquadratura.

Come è più esplicito in Sette opere di misericordia, ho l’impressione che nei vostri film lavoriate sempre a un insieme di quadri che in un certo modo costruiscono non solo una linea retta ma che sono anche collegati tra loro in modo quasi casuale, a diversi livelli e che questi collegamenti poi siano sempre un po’ più deboli della forza interna dei singoli quadri, delle singole sezioni.

Massimiliano: Sì, tutti i film partono da un quadro generale, un disegno che si aggiorna nel tempo, soprattutto nei documentari, un disegno che all’interno ha a sua volta altri disegni. Crediamo che sia un approccio narrativo che ha una forte potenzialità: da una parte quella di dar forza a singole sequenze, a singoli pezzi di mondo, singoli pezzi del racconto, come se essi combattessero con la struttura generale del film, come se volessero uscire, come se reclamassero una loro dignità di esistenza; dall’altra però dà più libertà allo spettatore che in questo modo può costruirsi un’altra storia che dialoghi con la storia che proponiamo noi. I ricordi del fiume è una raccolta di ricordi in un luogo labirintico, frammentato, fatto di tanti piccoli mondi, uno diverso dall’altro, con tante persone che lo abitano. Per restituire questo caleidoscopio di corpi, di volti, di case, non abbiamo fatto altro che assecondare questa frammentazione. L’unico modo per restituire questo mondo con la sua dignità e la sua concretezza era farci un documentario e costruire il film per ricordi. Il titolo viene proprio da qui: chi non ha mai visto questo luogo, che se lo possa ricordare non secondo le immagini che ci hanno voluto trasmettere le televisioni, i giornali, le campagne elettorali, i politici, i vari comitati pro e contro questo o quello, ma secondo uno sguardo che lì è stato e lì è rimasto per un tempo lungo. E poi naturalmente anche perché le persone che l’hanno vissuto se lo possano ricordare così come l’hanno vissuto loro, che gli rimanga una traccia di questo luogo che è esistito per quattordici anni.

Cos’è che ti ricordi di un quadro? Sì, la struttura generale, ma poi magari ti resta impresso nella memoria un dettaglio, un volto, uno sguardo, un’immagine che ti rimanda a una storia, che può essere quella effettivamente trasmessa dal quadro, ma anche un’altra, una completamente diversa, che invece costruisci tu nella tua mente, mentre lo guardi.

Gianluca: Ho dimenticato quel che volevo dire. La struttura del film in realtà rispecchia la struttura del pensiero di mio fratello quando parla. Ha già detto tutto lui.

Forse era questo: il nostro è anche un tentativo di uscire dalla dimensione autoritaria della narrazione.

All’uscita dalla sala mi è venuto in mente che questo è o potrebbe essere considerato anche un saggio narrativo sulla resistenza della comunità rom rispetto all’essere visceralmente, violentemente, intransigentemente borghese del sistema che gli sta intorno.

Gianluca: Esattamente. Il nostro film è un atto di resistenza. È il tentativo di dare a questi resistenti la possibilità di autoritrarsi, di sfuggire alle narrazioni che vengono fatte intorno a loro, sopra di loro, attraverso un percorso narrativo che li coinvolge e uno sguardo fisicamente presente, il nostro, che è sempre con loro, nel tempo.

Massimiliano: Anche soltanto restare davanti a una camera che staziona a lungo davanti a te è un modo di autoritrarsi.

Gianluca: Un anno e mezzo di riprese è stato anche un modo per far capire che non eravamo lì per rubare delle immagini, al contrario, stavamo dando tutto quel che potevamo, il tempo della nostra vita. In questo spazio comune si è costruito il film. Non poteva che essere una lotta di resistenza contro la dissoluzione. Il cinema come strumento principale per resistere all’oblio ha l’immagine, la sedimentazione dell’immagine nella memoria. Quindi il film non poteva che rispettare la struttura della memoria che ha un suo ordine, ma ha anche un suo salutare disordine e in questo senso è molto antiborghese. Come dici tu, non solo la nostra società è borghese ma pretende anche che tutti rientrino nella sua stessa logica, nelle sue regole.

Massimiliano: E se non riesce a fartici rientrare, trova comunque una soluzione, trova sempre una soluzione per tutto. Pretende di avere una soluzione per la comunità di questa baraccopoli avendo anche la presunzione d’interpretarne i desideri, i sogni, le aspettative. Noi abbiamo provato a trovare un’altra soluzione.

Dopo la prima nel Fuori Concorso a Venezia, I ricordi del fiume è stato selezionato per il concorso internazionale nella prima edizione del DocSS – Festival Internazionale del Cinema Urbano in cartellone a Sassari dal 15 al 19 dicembre. Il DocSS è un festival di cinema documentario appena nato, che intende la città come cornice e come orizzonte e che sceglie l’urbano come dimensione dell’esplorazione del mondo attraverso lo strumento sempre più duttile e ed efficace del cinema del reale, nel senso più ampio e più moderno del termine.

In programma, oltre al concorso e alle attività parallele fuori della sala buia, un omaggio al presidente di giuria Giovanni Cioni, la retrospettiva a tema “Teatro di guerra” e una sezione espositiva dedicata al cinema portoghese contemporaneo costruita in collaborazione con L’indielisboa International Film Festival di Lisbona.