C’era una volta, durante una campagna presidenziale di tanti, tanti anni fa…Nel clima surreale e imprevedibile della corsa alla Casa bianca 2016, il match tra George W. Bush e l’attuale segretario di stato John Kerry, nel 2004, sembra storia antica – un duello tra due candidati dell’establishment tradizionale «coperto» da un establishment mediatico in cui i social media non avevano ancora fatto crepa. Citizen United, la catastrofica decisione delle Corte suprema che, nel 2009, decretò che anche corporation erano degli «individui», aprendo così la strada a donazioni praticamente illimitate ai candidati politici, non sembrava nemmeno all’orizzonte.

Non che si giocasse «pulito». Anzi. Pluridecorato per il suo eroismo in Vietnam, Kerry era vittima di una campagna di diffamazione orchestrata da un gruppo chiamato Swiftboat Veterans for Truth, che metteva in dubbio il suo record militare. In quel contesto, scavare nel record militare di Bush Jr., che in guerra non era mai nemmeno andato, sembrava legittimo, quasi un must. Dopo aver seguito invano la pista per uno scoop sui legami tra la famiglia Bush e quella di Bin Laden, la producer Mary Mapes (Cate Blanchett) e la star delle CBS News Dan Rather (Robert Redford, che replica magnificamente una certa regalità di Rather, ma anche la sua autentica passione da vecchio reporter) incappano in una storia secondo cui, non solo Bush, grazie agli appigli famigliari, avrebbe evitato la leva in Vietnam acquattandosi invece nell’aviazione della guardia nazionale del Texas: alcuni documenti siglati da un superiore suggerirebbero che la sua reale permanenza presso la Texas National Guard sia stata praticamente nulla.

La faccia scavata e gli occhi accesissimi di chi lavora troppo su una cosa che ama, Mapes (il film, da ieri nei cinema italiani, è tratto dal suo libro, Truth and Duty: The Press, The President and the Privilege of Power) si butta sulla storia. Quella tra lei e Rather, una consuetudine alla Hepburn/Tracy nei film degli anni quaranta, saldata da inchieste comuni che hanno cambiato la storia, come quella sulle torture di Abu Grahib.

Un po’ come Spotlight, il film di James Vanderbilt (sceneggiatore di un altro film investigativo, il fincheriano Zodiac, qui alla sua prima regia) segue l’inchiesta e la squadra che la porta avanti –oltre a Mapes, un giovane freelancer che aveva già annusato l’inghippo (Tropher Grace), una professoressa di giornalismo (Elizabeth Moss) e un luogotenente colonnello, veterano del Vietnam, che fa loro da consulente (Dennis Quaid). Stacey Keich, stanco e sofferente, è il luogotenente colonnello della guardia nazionale che dà loro i memo da cui si evince che, per gran parte del suo turno presso la Texas National Guard, W. è stato uccel di bosco. Il servizio, previsto per il magazine 60 Minutes, è ancora in fase di verifica quando, per un cambio di calendario, la redazione decide di mandarlo in onda lo stesso.

Ricordo benissimo come la storia attecchì rapidamente su altre outlet, a partire dal New York Times. Ma anche la violenza della reazione da parte della campagna Bush, un presidente in carica, dietro al cui team elettorale stava quindi anche il peso di un intero governo. I memo erano falsi, o comunque non verificabili. Rather e Mapes provarono a difendere la storia (dall’altra parte, nessuno produsse elementi per smentirla), chiedendo tempo per trovare nuove fonti. Ma il loro stand durò meno di un minuto.

Non importa il record perfetto, tutti i premi giornalistici portati al network: a loro volta richiamati all’ordine da altri piani alti (c’è in ballo l’approvazione di una legge che costerebbe loro moltissimo), i piani alti della CBS chiusero l’inchiesta, sciolsero la squadra, terminarono la carriera di Mapes e molto sbrigativamente mandarono Rather in pensione, dopo averlo obbligato a chiedere scusa al pubblico.

Onesto anche se piatto di regia e di grinta, il film di Vanderbilt è confuso e timido, proprio su questa parte così importante. Nel suo bellissimo The Insider, Michael Mann era stato molto meno tenero con la leadership della CBS. Ma, nei panni di una leggenda del giornalismo americano espulsa, improvvisamente e con violenza, dal suo mondo, Robert Redford (che era stato Bob Woodward in Tutti gli uomini del presidente), ci lascia con alcuni momenti malinconici e molto belli.