Chi sono i padroni del calcio? Sceicchi e oligarchi russi, cinesi, thailandesi e indiani hanno messo le mani sul calcio europeo per trarne profitti. Perché il capitalismo mondiale si fa la guerra attraverso il calcio? Chi ha colto la palla al balzo e chi ha perso il treno come il calcio italiano, conservatore e litigioso. Ne parliamo con Marco Bellinazzo autore di Goal Economy. Come la finanza globale ha trasformato il calcio ( Baldini e Castoldi, euro 19).

Com’è andato il calciomercato delle grandi concorrenti della Juve?
Il Milan ha speso molto, come non accadeva da anni, anche in vista del passaggio del 48% del club al thailandese Bee Tauchebaul atteso per fine settembre. Sono stati investiti una novantina di milioni. Purtroppo per l’attuale dirigenza sono sfumati i colpi più prestigiosi e questo ha generato un certo malcontento nella tifoseria. L’Inter ha scelto una campagna più roboante, rivoluzionando l’organico, distribuendo attraverso varie formule contrattuali il peso economico sui bilanci dei prossimi anni. Lo stesso ha fatto la Roma. Una strategia che dovrà passare ora al vaglio dell’Uefa chiamata a verificarne la compatibilità con il fair play finanziario.

Perché condotte diverse?
In Italia solo Juve, Roma e Lazio sono quotate in Borsa e perciò sottoposte a maggiore trasparenza e controllo. Gli altri non hanno controlli rigidi e i casi come quello del Parma o Siena sono dietro l’angolo. La squadra toscana che fino a due anni fa militava in serie A è finita nel nulla, travolta dai debiti e dall’eccessiva dipendenza dal Monte dei Paschi. Con la crisi dell’istituto bancario non a caso il Siena è precipitato. Altre squadre delle serie minori che giocavano in Lega Pro (quella che un tempo veniva chiamata serie C, ndr) sono scomparse, cancellando la memoria storica, il rapporto con i tifosi e la città. Negli ultimi anni in Italia sono scomparse 120 società di calcio.

Anche negli altri campionati europei succede questo?
La Premier League ha avuto la capacità di rigenerarsi, a partire dai fatti tragici che caratterizzarono il calcio inglese negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, la strage dell’Hysel, quella dell’89 all’Hillsborough Stadium in occasione della semifinale di FA Cup tra il Liverpool e il Nottingham Forest in cui morirono 96 tifosi del Liverpool per la calca formatasi nel tunnel del Gate C, a causa di una cattiva gestione dell’ordine pubblico da parte della polizia. Negli anni Novanta il governo inglese favorì l’ammodernamento degli stadi con un contributo del 2,5% proveniente dalle scommesse sportive al quale si aggiunse un finanziamento di 3,5 miliardi di sterline da parte dei club. Negli ultimi 20 anni sono stati costruiti 30 nuovi stadi, che sul piano architettonico sono invidiabili e assicurano alle squadre una redditività che va oltre 700 milioni di euro a stagione a fronte dei 100 milioni garantiti nel periodo precedente alla costituzione della Premier League. Inoltre, nel paese del liberismo sfrenato, i presidenti delle società di calcio si sono messi d’accordo su una più equa distribuzione dei proventi dei diritti televisivi. La prima squadra non può percepire più del doppio dell’ultima squadra, un principio che garantisce agli ultimi di mantenere i bilanci solidi, di fare acquisti di calciatori importanti, di pagare gli stipendi e di evitare buchi che portano nel giro di poco al fallimento.

Perché non avviene in Italia?
L’Italia ha perso il treno all’inizio del Duemila. Siamo una generazione indietro rispetto a paesi come Inghilterra, Germania e Spagna. Nel 2004 il fatturato dell’Inter e quello del Barcellona erano intorno ai 160 milioni. Oggi il club catalano è tra i più ricchi del mondo e ricava oltre mezzo miliardo di euro a stagione. In Italia si è verificato il processo opposto a quello inglese. I presidenti vanno ognuno per conto proprio, con alleanze tra squadre forti e piccole che paralizzano la Lega privandola di una strategia comune. Maurizio Beretta, presidente della Lega Calcio, nonché responsabile comunicazione di Unicredit, di fatto, non ha potere decisionale. Tutto si decide, si fa per dire, nelle reiterate riunioni assembleari. Una sorta di condominio in cui si fa a chi alza di più la voce senza decidere alcunché, se non come spartirsi i soldi delle tv, e in cui ogni presidente di serie A ha potere di veto e ogni scelta è frutto di equilibri precari che cambiano continuamente, con dirigenti e patron come Galliani e Lotito a tirare le fila. Il calcio italiano è incapace di rinnovarsi ed è lo specchio di quello che avviene nella politica. Le dimissioni del ct Cesare Prandelli e del presidente della Federcalcio Giancarlo Abete, dopo il disastroso esito degli azzurri ai mondiali di calcio del 2014, hanno aperto una crisi «politica» dalla quale si è usciti con intese consociative che sono il riflesso di un certo conservatorismo del calcio italiano. L’elezione di Tavecchio è figlia di una governance ingessata del nostro calcio in cui nessuno si fida più di nessuno.

Se il calcio italiano è conservatore, che cosa può fare la politica?
In Spagna sono stati i presidenti delle squadre della Liga a sollecitare il governo Rajoy ad approvare una legge per la vendita collettiva sui diritti televisivi e una distribuzione più equa degli introiti, sul modello di quello che avviene in Inghilterra. Si faccia la stessa cosa in Italia, qualche segnale Renzi l’ha dato ma poi è finito lì.

Basta una più attenta distribuzione degli introiti televisivi per risolvere i problemi del calcio italiano?
No, occorre altro. Un primo passo potrebbero essere gli stadi di proprietà della squadra, o meglio parlerei di stadi di qualità, che possano garantire sicurezza, spazi agevoli e impiegabili anche durante il resto della settimana. Impianti moderni dotati di musei, palestre, ristoranti, sale convegni e negozi per il merchandising. Allo Juventus Stadium, di proprietà della squadra bianconera, sono stati impiegati un migliaio di persone. Se si ammodernassero gli stadi italiani che hanno un’età media di sessant’anni o se ne costruissero di nuovi il settore dell’edilizia, anche nelle zone economicamente più depresse del paese, potrebbe rimettersi in moto, garantire occupazione agli operai e nuovi impieghi negli stadi. Se gli stadi diventano proprietà dei club, per gestire proficuamente questi spazi occorrerà mettere a capo gente selezionata, capace di gestirli per renderli redditizi. Potrebbe essere un primo passo anche per formare una nuova leva di dirigenti. Altro aspetto da non sottovalutare è la possibilità di riqualificare urbanisticamente le aree intorno allo stadio, dando la facoltà a una società costituita da privati e club di costruire abitazioni civili e uffici nelle aree circostanti e dai ricavi finanziare l’area sportiva. Su questo punto c’è una certa resistenza da parte della sinistra e del movimento ambientalista, che gridano alla speculazione edilizia. Nella legge di stabilità 2014 che ha tentato di accelerare le procedure pubbliche per la realizzazione di impianti sportivi di nuova generazione è stato escluso che tra le misure compensative che i comuni possono concedere ai privati affinché finanzino i club ci potesse essere l’edilizia residenziale, depotenziando un intervento legislativo atteso da anni. Ma le abitazioni potrebbero essere anche di tipo cooperativo, contornate da spazi verdi e da servizi, dalle palestre ai palazzetti dello sport fino ai supermercati, non necessariamente destinate a un ceto sociale alto.

Puoi fare degli esempi?
Lo stadio dell’Arsenal, inaugurato nel campionato 2006-2007, ha richiesto un investimento di 550 milioni di sterline, è stato finanziato con la cessione dei diritti di denominazione dello stadio a Emirates per quindici anni in cambio di 100 milioni. La capienza è passata da 38mila a 60mila spettatori, nel 2013 la media spettatori è stata di 59.928, inoltre si sono svolti cinque concerti tra i quali quelli dei Coldplay e dei Muse, garantendo circa 108 milioni di euro alle casse del club, passati a 127 milioni nel 2014. All’interno dello stadio i box per i tifosi vip sono passati da 50 a 150 e per l’abbonamento annuale si è passati da 65mila a 150mila sterline annue. Sotto vi sono quattro ristoranti e decine di punti di ristoro per i tifosi. Ogni anno l’Arsenal incassa 70 milioni in più alla voce «match day». Inoltre, d’accordo con le autorità locali l’Arsenal dopo aver demolito il vecchio stadio Highbury, ha costruito 700 appartamenti inaugurati nel dicembre 2009, dalla cui vendita ha incassato 500 milioni. Tutta questa operazione permette all’Arsenal di tenere i conti sotto controllo, di non essere costretta a vendere i calciatori più forti e di competere ai massimi livelli della Premier League. Queste modalità possono essere applicate anche a squadre del campionato italiano di media grandezza. Se dieci anni fa avessimo intrapreso questa strada avremmo evitato il fallimento di società che hanno fatto parte della storia del calcio italiano, con ricadute sul tessuto sociale, sui tifosi e sull’economia delle città coinvolte.

Perché sul calcio inglese, spagnolo e ora italiano hanno messo le mani cinesi, russi, indiani, americani?
Sono imprenditori che gestiscono imperi economici e sono convinti che i club acquistati se gestiti correttamente possano produrre guadagni. Inoltre paesi come l’India e la Cina rappresentano potenziali mercati dove far fruttare il marchio del club, perciò gli sponsor sono aumentati, a cominciare dalle compagnie aeree che hanno dato i loro nomi ad alcuni stadi. Il capitalismo mondiale si fa la guerra attraverso il calcio. In Asia il monopolio delle sponsorizzazioni delle nazionali di calcio è tenuto dalla Nike, che finanzia ben nove squadre dalla Cina all’India all’Indonesia fino alla Corea del Sud che rappresentano 2,5 miliardi di persone, mentre in Europa Adidas e Nike sponsorizzano il 45% dei club che partecipano ai cinque principali campionati di calcio europei.

Non è un po’ strano che nella trattativa per l’acquisto del Milan sia intervenuto il segretario del Pcc Xi Jinping per sostenere una cordata cinese?
Tutt’altro, Xi Jinping ha capito il grande potenziale del calcio e il consenso politico che ne può derivare. Non a caso in Cina stanno sorgendo accademie di calcio ovunque, vogliono allestire squadre competitive in grado di competere e affermarsi a livello mondiale, come i più prestigiosi club europei. Si pensi al Guangzhou, la squadra di Pechino, il più forte club della Cina allenato fino a poco tempo fa da Marcello Lippi cui è subentrato Fabio Cannavaro. La decisione di esonerare quest’ultimo perché non erano soddisfatti dei risultati è il segno che vogliono vincere. Anche il caso Blatter e lo scandalo dell’assegnazione dei mondiali di calcio che ha travolto a maggio la Fifa, l’organizzazione mondiale che sovrintende il calcio, è frutto di questo scontro politico in atto tra le superpotenze. Non a caso contro Blatter è scesa in campo l’Fbi e la Casa Bianca ha giustificato l’operazione, mentre a difesa del tuttora «dimissionario» numero uno del calcio è intervenuto Putin. Lo stesso Putin, consapevole del consenso che il calcio può portare, ha fortemente voluto ospitare i Mondiali del 2018 e ha sollecitato Gazprom a sponsorizzare i principali club europei e gli oligarchi della sua cerchia a comprare squadre di calcio europee. Oggi perfino gli Usa, storicamente dediti al football americano, al baseball e al basket, stanno rivedendo le strategie sul calcio e riorganizzando i campionati per renderli più attraenti, non a caso Pirlo e altri campioni finiscono lì la loro carriera.

La Germania ha vinto i mondiali in Brasile l’anno scorso e i club tedeschi vincono in Europa. Qual è il segreto?
In primo luogo hanno un’impiantistica all’avanguardia. In occasione dei mondiali del 2006 disputatisi in Germania, sono stati investiti 1,5 miliardi per il rifacimento di 12 stadi con il contributo del governo centrale, lander e comuni pari. I club hanno contribuito con 412 milioni cui si aggiungono altri 440 milioni attraverso innovativi project financing, non per compiere aberranti speculazioni, come accadde per Italia 90, ma per realizzare stadi moderni che consentono ai club di aumentare i ricavi. Dopo l’eliminazione della Germania ai quarti di finale dei mondiali del ’98 e la mediocre prestazione agli Europei del 2000, la Germania ha rivisto l’organizzazione del calcio giovanile. I club della Bundesliga di serie A e B dal 2001 hanno l’obbligo di istituire accademie giovanili con squadre a partire dagli under 12, dall’Under 16 in su ogni club deve avere almeno 12 giocatori candidabili per una convocazione in nazionale. A partire dal 2001 le 18 squadre della Bundesliga hanno investito complessivamente 950 milioni nelle accademie giovanili. La selezione dei ragazzi più promettenti avviene all’interno del paese, dove li accolgono 366 campi in cui operano allenatori formati dalla Federcalcio tedesca, supervisionati da coordinatori che tengono i rapporti con i club e hanno il compito di uniformare i metodi di allenamento. Oggi i due terzi delle squadre è costituito da calciatori tedeschi, pur non essendoci il limite di tesseramento degli extracomunitari, come avviene in Italia. Lega e Federcalcio tedesca hanno deciso di favorire l’integrazione, semplificando notevolmente l’accesso alla cittadinanza agli immigrati di seconda generazione. Una politica lungimirante, che unita agli ingenti investimenti sui vivai hanno portato la Germania alla conquista del quarto titolo mondiale in Brasile.

I club tedeschi sono anche i soli che resistono all’assalto degli stranieri ricchi e pigliatutto. Com’è possibile?
Dal 1999 in Germania vige la regola del 50%+1, che di fatto impedisce a un singolo investitore di controllare un club, il cui pacchetto di maggioranza deve appartenere a un’associazione di tifosi. Il no ai capitali stranieri è compensato da un sistema di sponsorizzazioni dei principali gruppi industriali nazionali. Il Bayern di Monaco, tra i club più ricchi del mondo, ha come soci di minoranza Audi, Allianz e Adidas, che insieme non superano il 25% , mentre il rimanente 75% è di proprietà dell’associazione sportiva dei tifosi Fc Bayern Munchen, che conta 250mila iscritti, i quali al momento dell’iscrizione comprano delle azioni ed eleggono i loro rappresentanti nel consiglio di amministrazione. La gran parte delle squadre tedesche sono governate da soli soci, tra queste anche le squadre che competono ai massimi livelli della Bundensliga e delle competizioni europee come lo Shalke 04, al cento per cento proprietà dei 125mila soci, e del Werder Brema. Rigore nei bilanci, trasparenza e partecipazione attiva dei tifosi alle scelte del club sono un segno evidente di democrazia, una formula che consente un maggior controllo dei tifosi che diventano sostenitori della squadra e garanti della trasparenza.

Una formula replicabile in Italia?
Credo che forme partecipative come quelle tedesche o come quelle di Real Madrid e Barcellona, che hanno decine di migliaia di soci-tifosi, siano indispensabili. Ma ogni paese deve sviluppare modelli di azionariato popolare o diffuso conformi alle proprie tradizioni. Per questo ritengo che soprattutto le realtà medio-piccole, le squadre di provincia possano giovarsi della partecipazione attiva e finanziaria dei tifosi nei club. Ma ci devono essere diritti e doveri, potere di controllo e obblighi. Il senso di identità dei tifosi e delle squadre non può che uscirne rafforzato. Ci sono già esperienze in quest’ottica, per esempio ad Ancona, e un’altra ne sta nascendo proprio a Parma. E ciò che diventa essenziale per questi tifosi-azionisti è la sostenibilità nel tempo dei progetti sportivi, al di là delle vittorie sul campo. Se l’economia e la finanza padroneggiano il calcio alla fine lo distruggeranno, ma se i dirigenti sportivi, di piccoli o grandi club, sapranno mettere l’economia e la finanza al servizio del calcio, tuteleranno i club e le comunità che si raccolgono intorno ad essi. Difenderanno la passione sportiva e la tradizione che l’accompagna.