Dalla vita di tutti i giorni è possibile trarre danni irreparabili o fortune inattese: questi i due estremi tra i quali sembra oscillare il mondo narrativo di Julian Barnes, scrittore inglese dotato di una brillantezza che si manifesta soprattutto nelle impennate dei dialoghi fra personaggi pescati sia nel serbatoio della letteratura sia in quello delle altre arti, così come ritagliati dalla grande Storia, o dalla esemplarità di esistenze qualunque, in grado di cambiare, tuttavia, i destini di chi si trova sulla loro strada.

Ironico e scarsamente penetrabile, Barnes è un uomo cortesemente schivo, patentemente più a suo agio sulla pagina, dove scambia pareri con i suoi personaggi, che a volte sembrano sorprenderlo, come se a sua insaputa generassero pensieri più intelligenti di chi li ha pensati per loro, sillogismi sfuggiti alle loro premesse, conclusioni alle quali l’autore stesso non era arrivato prima di ritrovarsele impresse sulla carta. Mai Barnes evaderebbe dai confini illuministi che incorniciano il suo pragmatismo divertito, ma a volte anche pericolosamente in bilico sull’orlo della saggezza, come insegna Elizabeth Finch, la protagonista del suo ultimo romanzo (uscito da Einaudi in gennaio con la traduzione di Susanna Basso e già recensito su queste pagine).

Il passaggio di Julian Barnes a Roma è stato l’occasione per questa conversazione.

Mi sono detta che dev’esserci una ragione se lei ha passato tanto tempo, in gioventù, a setacciare le carte di Flaubert per trarne il«Pappagallo» che l’ha resa celebre, poi si è dedicato alla biografia di Shostakovich per scrivere «Il rumore del tempo» e finalmente si è addentrato nella complessa vicenda storica di Giuliano l’Apostata, cui dedica una sezione del suo ultimo romanzo: è possibile che questa strategia narrativa le sia servita per tenere accanto al romanziere che è il saggista che forse avrebbe voluto essere?
Sì, tanto più che non ho mai avuto un piano, né per la mia scrittura, né per altro. Fin dai primi tempi ho mescolato narrativa e saggistica, autobiografia e pezzi di storia e di storia dell’arte. Semplicemente, vado nella direzione che mi tenta e dovunque trovi una vicenda da narrare ne sono entusiasta. È possibile che a volte abbia bisogno di una pausa dal genere romanzesco, ma in realtà non lo credo. Quel che ogni volta penso è solo: di cosa è fatta la storia che sta iniziando a ossessionarmi e come la racconterò? Poi, ovviamente, ci saranno sempre critici che diranno: «Ah, non è un vero romanziere! Ecco: non è un vero scrittore di saggistica!»

E come è arrivato a interessarsi proprio di un personaggio così remoto come Giuliano l’Apostata?
Tutto è nato dal fatto che circa quindici o vent’anni fa, lavorando a una serie di programmi radiofonici con un amico per la Bbc, mentre eravamo in Normandia scoprii che Algernon Swinburne, un autore molto fuori moda, che non avevo mai letto, trascorse alcuni anni nel nord della Francia, vivendo una vita molto dissoluta. Il protagonista maschile del mio romanzo, mentre indaga sulle carte lasciate da Elizabeth Finch, vede sul suo taccuino due iniziali e si domanda a chi corrispondano: lentamente capisce che stanno per «pallido galileo», e vengono da un verso dell’Inno a Proserpina di Swinburne. Chi parla è Giuliano l’Apostata, e la persona a cui si rivolge, per ammettere che il cristianesimo ha trionfato sul paganesimo, sull’ellenismo, sul giudaismo e su tutte le altre sette ed eresie in competizione tra loro nell’impero romano, è Gesù Cristo. Quelle parole, o meglio ciò che implicavano, mi sono rimaste impresse nella mente. E mi hanno fatto pensare che questa sconfitta definitiva, seguita dalla autorità crescente del cristianesimo non fosse una buona cosa. Swinburne pensava che le vecchie divinità pagane fossero portatrici di luce, felicità e piacere, e che dopo la nostra morte saremmo scomparsi. Mentre il cristianesimo che subentrò proponeva una visione della vita opposta, fatta di sofferenza e umiliazione. Solo se si fosse stati molto buoni e anche fortunati, si sarebbe guadagnata la felicità in paradiso. Perciò, per Swinburne, l’avvento del Cristianesimo è stato un grande errore della civiltà: si calcola che qualcosa come il 98-99% di tutte le opere scritte sia stato distrutto dai cristiani. Feroci come i talebani. Hanno fatto strage di autori, libri, pratiche di apprendimento, di tutta l’arte e l’erudizione greca e romana. Come dice Elizabeth Finch, tutto ciò che inizia con mono – come monoteismo – è il peggio del peggio. Lo credo anch’io: non c’è mai stata una fede religiosa in me, ma semmai avrei preferito essere un ellenista che un cristiano.

Julian Barnes (foto di Roberto Ricciuti via Getty Images)

Lei non è un autore che si impone ai suoi personaggi, dunque di volta in volta deve trovare per loro una voce diversa e che non soggiaccia alla sua. Quale fra i protagonisti dei suoi romanzi le ha dato più filo da torcere, prima di emanciparsi dalla sua impronta e conquistare una sua indipendenza?
Una volta finito un libro, in qualche modo si dimenticano sia i diversi modi in cui avrebbe potuto essere, sia le difficoltà con cui si è arrivati a ottenere ciò che si voleva. La giusta voce è certamente fra gli elementi più importanti, ma dipende dai casi. Il mio libro su Shostakovich, per esempio, è pieno di descrizioni del modo in cui parlava, dei suoi gesti e così via. Ma quando si inventa dal nulla, il personaggio nasce dotato dello stile in cui si esprime. A me per esempio, interessa come parla e non mi preme affatto mettere a punto il suo aspetto, se non verso la fine del libro. In Parliamone, ho messo in scena tre co-protagonisti, e il pericolo maggiore è stato per me l’avere trovato subito una voce, quella di Oliver, che mi piaceva troppo. Oliver è molto espansivo, un po’ barocco direi, perciò per me è risultato molto facile e molto piacevole da scrivere. Se non fosse che quando ho riesaminato il ruolo dei tre personaggi, mi sono accorto che Oliver aveva circa il 30% in più dei dialoghi rispetto a tutti gli altri. Ho dovuto essere spietato, ho dovuto dirgli a più riprese: «No, no, stai zitto, non è qui che devi parlare». La voce di Elizabeth Finch, invece, mi è piaciuta subito. Mi ha impressionato la precisione con cui parla, esatta come in una prosa scritta. Del resto ho sempre molto amato mettere sulla pagina parti di donne intelligenti. Una volta stabilito ruolo e voce del personaggio, il problema è risolto e bisogna solo assicurarsi che non esageri nel radicalizzare la sua natura, se no diventa la parodia di se stesso.

Molti anni fa, quando incontrai Antonia Byatt, parlavamo degli scrittori inglesi contemporanei e mi disse che lei era l’autore che sentiva più vicino, perché nei vostri libri la tradizione letteraria è particolarmente presente. Via via, però, nei suoi romanzi l’eredità letteraria è diventata meno invasiva: si sente più libero, ora, rispetto a quando il suo cuore batteva per il romanzo francese dell’800?
Mi sono sempre considerato prima di tutto inglese, poi europeo e per ultimo britannico, perché questo rimanda all’impero e significa conquiste e guerra. Molti dei miei contemporanei sono attratti dal romanzo americano, invece io non me ne sento affatto influenzato, benché lo ammiri tanto. Solo gli scrittori americani possono scrivere come gli scrittori americani. E quindi sì, il mio sguardo è sempre stato rivolto all’Europa, ho studiato francese e russo, e le tradizioni letterarie di queste lingue sono quelle che sento più vicine. Andai per la prima volta in Russia a diciannove anni, nel 1965. Girammo in una specie di furgone, io e i miei amici, per sei-otto settimane, dormendo in campeggio. Allora Shostakovich era ancora vivo, e io pensavo continuamente: «Oh, magari potrebbe essere in quella grande macchina nera!». Tornai in Russia nel 2015, esattamente cinquant’anni dopo, questa volta con la mia agente, sulla quale feci una grande impressione perché riuscivo a decifrare le insegne dei negozi.

Quindi anche Shostakovich non è venuto da un universo sconosciuto.
No, in Russia avevano dischi incredibilmente economici e di qualità abbastanza buona: ne portai con me una pila, che ho ancora. C’erano incisioni di Shostakovich che suonava i suoi preludi e le sue fughe, di Prokof’ev che faceva il suo Terzo concerto per pianoforte, cose così. Non li ascolto da molto tempo e sono certo che oggi il loro suono mi sembrerebbe terribile. Shostakovich mi rimase in mente per molto tempo: il suo caso mi si è chiarito sempre di più, mi interessava la sua reazione alle persecuzioni, molto diversa – per esempio – da quella di Prokof’ev . Era una figura enormemente complicata, molto dolorante, che finì col disprezzarsi, una fine terribile per qualsiasi essere umano, e di più per un grande artista.

Vorrei dedicare un po’ di attenzione a «Il senso di una fine», uno dei miei libri preferiti: non so se anche lei lo ami in modo particolare. Come descriverebbe il suo rapporto con questo romanzo?
Il rapporto, con ogni libro, cambia dopo la sua pubblicazione. A quel punto non sta più a chi lo ha scritto parlarne, ma a chi lo legge e lo commenta. Sul Senso di una fine ho ricevuto molte lettere. Forse perché il personaggio centrale è uno che, nella vita, ha sempre cercato di andare sul sicuro, evitando gli estremi: insomma, essendo molto prudente; ma alla fin fine questa sua strategia gli si ritorce contro. Ho ricevuto molte osservazioni e a volte anche lettere di ventenni che dicevano: «Mi è piaciuto molto il suo libro, e dopo averlo letto ho deciso di non essere prudente nella vita». Non era questo lo scopo per cui l’ho scritto, ma mi fa piacere. È chiaro che mentre intendo spiegare il modo in cui vivono i miei personaggi, non voglio affatto avere sotto controllo le reazioni che possono generano negli altri; ma a volte le risposte ti vengono incontro proprio perché non le immaginavi. Livelli di vita è un altro libro per il quale ho ricevuto molte lettere: dicevano cose come «anche mia moglie è morta e fino a quando non ho letto il tuo libro non sapevo che si può essere arrabbiati per questo». Quando ne scrissi, avevo sperimentato che il lutto può fare entrare in gioco la rabbia. E si vede che altri aspettavano di essere legittimati a pensarlo. Le loro reazioni sono state per me molto gratificanti.

Ricordo che quando uscì «Il pappagallo di Flaubert», invece, un altro tipo di lettore, probabilmente un critico, scrisse che il libro era «una sottile risposta a Derrida…»
Già, chi lo disse? Forse Joyce Carol Oates? O un critico… comunque era americano… non importa, la frase è più importante di chi la pronunciò: mi piacque moltissimo. Non posso immaginare un modo più lontano di così di pensare a un romanzo. A volte, durante incontri pubblici, capita di sentirsi presentare in modi simili. Poi arriva un altro e il libro successivo salta fuori che è tutto centrato «sulla mia lotta con Roland Barthes». E così via. Quando stavo per pubblicare Il senso di una fine, avevo difficoltà nel trovare un titolo, finché mi venne l’idea che poi prevalse, e mi sembrò buona perché teneva insieme due significati: la fine di una vita e il finale del libro. Mandai la proposta a alcuni amici e uno mi disse: «Titolo meraviglioso!». L’altro, un accademico citò subito il saggio di Frank Kermode. Naturalmente alcuni recensori decisero che avevo letto quel libro (purtroppo no) e che quindi il mio romanzo era una risposta al punto di vista del critico inglese sulla fine della letteratura. È grottesco, ma pensai che non stava a me rispondere.

Se ripercorre la sua parabola letteraria, come direbbe che è cambiata nel corso degli anni la sua scrittura o la sua ricerca di personaggi?
In genere, non rileggo i miei libri, se non quando cerco qualcosa di specifico, magari per vedere se una cosa l’ho già detta altrove. E ci sono volte in cui mi è capitato di pensare: «Oh, come è scritto bene», oppure: «Sì, è piuttosto promettente, mi piace». Ma non ricordo i miei libri così bene come chi li studia, e, d’altronde, passando da uno all’altro ho sempre seguito il mio naso. È una questione di temperamento, vado in direzioni diverse a seconda di ciò che mi affascina in quel momento. Comunque, credo di essere cambiato negli ultimi anni, nella direzione in cui Verdi, verso la fine della vita, diceva di essere cambiato: «Invecchiando ho imparato a scrivere meno musica – disse – meno note». Mi è sembrato meraviglioso e divertente allo stesso tempo. Se avessi scritto Elizabeth Finch trent’anni fa, probabilmente avrei seguito il personaggio mentre entrava nel dipartimento della sua università, avrei descritto un edificio moderno e brutalista, il cemento macchiato dalla pioggia, lei che attraversava una serie di corridoi, i suoi studenti per metà attenti e per metà no… «Dimentica tutto questo», mi sono detto. E così, il romanzo comincia di colpo, quando lei entra nella stanza: è lì e basta.