Cortázar nega di aver scritto una biografia di John Keats – la più esatta e entusiasmante che io abbia avuto la fortuna di leggere – forse perché consapevole di avere scritto contemporaneamente la propria autobiografia. Non sappiamo esattamente la data di composizione, che cade comunque negli anni ’50, quando la sua Waterman smette di svolazzare sull’ultimo poemetto che Keats lascia incompiuto, Il berretto a sonagli. (Il presente è d’obbligo «perché qui si parla al presente, presentissimo, di un passato trapassato»). Noi lettori siamo invitati a seguire in devoto silenzio la chiacchierata di Julio e John, con l’intervento di altri poeti amici di Julio, la «banda di fratelli»(Cernuda, Picon, Alberti, Jiménez, Rimbaud, Lorca, Devoto, Baudelaire, Hölderlin, Guillén, Mallarmé, Valéry…), mentre a braccetto passeggiano per i prati fioriti, le verdi valli, i fiumi cristallini, i cieli ventosi della poesia di John.
Va detto che se l’io del giovanissimo poeta si perde abitualmente nel «suo splendido camaleontismo», è anche abituale assistere alle testimonianze di biografi, traduttori, editori che s’innamorano perdutamente di lui. Elido Fazi, biografo, traduttore e ora anche editore, è un innamorato della prima ora. Neanche gli anni lo hanno guarito da questa passione, e aver pescato questa perla ignorata nel tesoro di scritti postumi di Cortázar ne è una splendida prova. 
Imagen de John Keats
, pubblicata postuma nel 1996, è ora presentato in Italia con il titolo più accattivante, A passeggio con John Keats (Fazi, appunto, che traduce anche le poesie citate). La traduzione del grosso volume è dovuta alla brava Elisabetta Vaccaro e a Barbara Turrito (pp. 666, euro 19, 50). Ci sono molte citazioni – come riconosce lo stesso autore – convinto che benché questa prassi sia di per sé narcisista, le sue siano citazioni memori di analogie non facilmente comprensibili, «che lasciano il fiore e se ritornano al loro nulla». Dai diciotto ai ventitré anni, si passeggia con Keats, cucciolo, puledro, gatto. «C’era in lui qualcosa di animale allo stato puro, di gatto che alla nascita contiene in sé il gatto nella sua interezza, senza che si possa dubitare che al termine del cammino sarà in atto ciò che si coglie in potenza».
Oppure, se si preferisce la parentela vegetale, «John nasce frutto, senza lo spettacolo e la vanità di un fiore che lo anticipi». L’impianto di questo lavoro fa pensare a un albero che si leva in alto anno dopo anno, e acquista il frondoso commento delle opere, dei suoi frutti dorati – la poesia e le lettere, a seconda dell’età e degli umori, e della vita nel bosco circostante – la cotérie degli amici gentili e affezionati Brown, Hunt, Reynolds, Dilke, Bailey e delle donne amate, tra cui domina la fatale Fanny. I numerosi sorprendenti affondo sulla natura della poesia, del poeta, del tempo dell’arte, della traduzione («un sistema di sostituzioni»), della conciliazione degli opposti costituiscono la chioma brillante del grande albero, sempre mossa dal vento dell’improvvisazione. Perché, come gli insegnano Sterne, Unamuno, e la sua esperienza di jazz man, i libri che parlano come uomini sono quelli che si fanno più amare. La pagina stessa, emozionata, è condizionata tipograficamente, dal sussurro confidenziale, o dai ghirigori dell’improvvisazione, o dalla serialità di deliziose immagini in fila, in una sorta di animato bassorilievo. Righe spezzate e in disordine, oppure ordinatissime file di metafore da luna park. Ecco come presenta Endimione «… è una banchina da cui pescare, un parco giochi sotto alla sua enorme luna fissata con pipistrelli e mandolini, una galleria di specchi, una serenata in maniche di camicia in tela d’Olanda, un assolo di Coleman Hawkins, un boccale di sidro, uno splendido KO. Il modo migliore di leggere l’opera è stendersi a terra, tra cani, gatti e tartarughe, oppure che una voce la faccia girare nell’aria per il sopore della felicità».
L’opera attraversa il mondo, e lo raccoglie in sé. Keats è il poeta per cui il mondo esteriore esiste – insiste Cortázar. E precisa i luoghi, che non sono gli stessi, in cui lui e John hanno pensato e scritto nel mood particolare dettato da quel suolo: Buenos Aires, Siena, Firenze, «il vicolo di San Gimignano dove i gatti erano fosforescenti», poi Hampstead, Teignmouth, l’isola di Wight, Roma dove «il ramo di John sfiora il mio ramo, sento l’odore delle sue foglie, mi bagno della sua pioggia, intravedo, prima che la bonaccia se lo porti via, il colore di un frutto appeso all’estremità».
La parola di Keats vede, affonda nel sottosuolo ancestrale, indovina le linee di forza che portano alle fonti prime. I temi dei suoi poemetti narrativi (La Vigilia di Sant’Agnese, Lamia, Isabella, La belle Dame sans Merci, per non parlare degli scenari classici e teatrali di Endimione e i due Iperione), che nutriranno largamente la fantasia di pittori e poeti vittoriani, si discostano dalla forma con cui sono proposti, e risalgano all’ «esattezza magica» delle origini.
Julio non rinuncia a cercare un metodo che non sia metodico nelle aeree costruzioni di Keats, un non metodo che sia anche il suo, analogo a quello del ragno che costruisce la sua cittadella aerea partendo dalle proprie viscere, e puntando su eccentrici punti di appoggio, venuti spontaneamente all’incontro. «Ilozoismo» è l’unica parola ad alta concentrazione semantica che Cortázar ripete più volte per insistere sul felice abbandono di Keats in seno alla natura, alla sua sensualità diffusa, addirittura alla sua «panspermia», che l’irruzione brutale della vita reale sconvolge nelle sue fondamenta. L’amore per Fanny e quel che ne dovrebbe conseguire nella vita di John, malato, assediato dai debiti, poeta disponibile solo all’intimità con la poesia, oscura tragicamente il suo breve orizzonte.
George Keats è venuto dall’America e si è impossessato della piccola eredità che i tre fratelli hanno ricevuto. Eppure è urgente per John trovare una fonte di guadagno che i suoi libri non sono in grado di procuragli. Cambiare professione, ma quale? Fino a che il progresso della tisi rende la presenza di quell’amore divorante ancora più dolorosa. «Fanny era l’insopportabile paragone del passato col presente; la mano che si posava sulla sua fronte per fugare la febbre tendeva un ponte che il malato non avrebbe attraversato». Nelle sofferenze della fine Julio sta vicino all’amico come nessun altro amico o biografo ha mai fatto. Segue passo passo fino a Roma il poeta morente, ed è lì accanto a Severn quando John mormora: «Sento crescere i fiori su di me».