Sadiq Khan è quasi certamente il nuovo sindaco laburista di Londra. E questo nonostante la campagna meschina e tremebonda che il rivale Tory Zac Goldsmith gli ha mosso nelle ultime settimane, quando si andava ormai profilando il suo cocente svantaggio sul rivale (lo ha perfino accusato di essere un estremista islamico).

Mentre scriviamo, Sadiq Khan conduce 44 a 35% al primo turno. Seguono, sostanzialmente staccati, Siân Berry dei Verdi al 6.0%, Caroline Pidgeon dei Libdem al 5.0%, Peter Robin Whittle dell’Ukip al 4.0% e Sophie Walker di Women’s equality al 2.0%. Lo conferma anche Peter Kellner, boss di YouGov e gran sacerdote dell’ars divinatoria del sondaggio, tanto assiduo degli studi Bbc in periodo di scrutinio elettorale da far ormai parte dell’arredo: «Con ormai l’80% delle prime preferenze scrutinate, Sadiq ha vinto senza alcun dubbio. È assai avanti nel primo spoglio e questo non potrà cambiare radicalmente», ha detto.

Il contest municipale londinese pareva una cosa al limite del romanzo d’appendice vittoriano: il figlio laburista dell’autista d’autobus pakistano e di una sarta, sette fratelli, cresciuto in una casa popolare del sud della capitale che duella con il suo pallido aristorivale conservatore, educato in una public school – per una perversa e beffarda anomalia semantica così si chiamano le scuole private in Gran Bretagna – cresciuto in mezzo ad agi resi possibili dai miliardi di papà e in una bolla spaziotemporale protonovecentesca.

Anche per questo i mezzucci islamofobici di Goldsmith – che ha ripetutamente insistito sul fatto che Khan avesse condiviso il palco con «estremisti» in passati comizi dando dunque loro legittimità politica, hanno probabilmente finito per giovare al candidato avversario, al punto da aumentarne i consensi. Viste le origini ebraiche di Goldsmith una tattica simile non può non essere vista come una mossa dettata dal panico, che Khan e il partito laburista nel suo complesso non hanno esitato a bollare come razzista e anti-islamica, soprattutto in un momento storico come quello attuale, dove simili accuse hanno un peso enorme.
Sì, è stato ripetuto alla nausea, ma giova farlo ancora: Khan è il primo sindaco musulmano di quella che – a prescindere dal temuto risultato a favore del Brexit nel referendum del prossimo 23 giugno – rimane capitale europea tra le più importanti. Non ha brindato con alcool durante la sua cerimonia d’introduzione al Privy Council, organismo formale di consiglieri della corona, e ha chiesto di poter giurare su una copia del Corano e non sulla Bibbia. Come ha notato il commentatore politico Tony Travers, il fatto che del 13 per cento di musulmani londinesi la maggior parte sia minorenne, e dunque non voti, significa che i cittadini “giudaico-cristiani” nel loro complesso – per il sindaco di Londra votano anche gli stranieri purché residenti – hanno espresso per Khan una preferenza capace una volta tanto di scindere religione e identità dalla politica.

Ha detto durante la campagna elettorale: “Sono un londinese, sono un europeo, sono britannico, sono inglese, sono di fede islamica, di origine asiatica, di discendenza pakistana, sono un padre, sono un marito.” E ha aggiunto: “A Londra non ci tolleriamo soltanto: ci rispettiamo gli uni con gli altri.” Ma il dato evidenzia anche quanto ormai postnazionale Londra sia diventata dopo otto anni consecutivi di orge speculative del Caligola neoliberista Boris Johnson: un ecosistema economico-finanziario autonomo e in parte avulso dal resto del paese, capace di monopolizzare le risorse in nome del suo insostituibile contributo al traino dell’economia nazionale.

Una vittoria, la sua, che non si può fare a meno di considerare del tutto impossibile in qualsiasi altra capitale europea di oggi, e che dà a Londra il primato di città occidentale tra le più aperte e – a voler usare una brutta parola – tolleranti. E che dà un segno chiaro di opposizione alla marea di xenofobia, populismo quando non apertamente di razzismo che permea molte parti d’Europa ed è senz’altro almeno in parte responsabile nell’aver sospinto un personaggio politicamente impresentabile come Donald Trump alla nomination repubblicana e fin quasi sulla soglia della casa Bianca: qualcosa che nemmeno il più smaliziato autore satirico avrebbe fino a poco tempo fa creduto possibile.

Khan ha anche detto cose molto sensate sulla radicalizzazione dei giovani musulmani, a Londra e nel resto del paese. Ha reiterato che i tentativi del governo per arginarla non sta funzionando, e avere uno come lui a City Hall significa l’inizio di una politica di rapporti con le frange più estreme del fondamentalismo più improntati alla ragionevolezza e alla lucida comprensione. Soprattutto, significa la fine urgentemente auspicabile di una sistematica demonizzazione che finora ha dato risultati opposti a quelli sperati.