«Finalmente trasparenza» sull’invio di armi all’Iraq e (forse) alle milizie curde in funzione anti-Isil, dicono molti sulla stampa italiana. Davvero? A noi non sembra proprio, se non per il fatto che le dichiarazioni rese dal ministro della Difesa Roberta Pinotti all’audizione del 3 settembre di fronte alle Commissioni congiunte Esteri e Difesa «rivelano» che il ministro tiene ancora molte cose nascoste e non ha consiglieri militari in grado di revisionare le cose che dice. Vediamo con ordine.

Per prima cosa alla fine della sua comunicazione sullo stato delle missioni estere in corso, Pinotti dice – a proposito dell’invio di armi all’Iraq – che ci sarà un apposito emendamento al decreto legge di proroga delle missioni estere che «formalizzerà le decisioni prese» in relazione all’invio. Si dimentica, tuttavia, di dire che ancora quelle armi non sono in legittimo possesso del suo ministero perché mai è stato fatto il decreto ministeriale della Giustizia (in accordo con Difesa e Finanze) che, in base alla legge del 3 agosto 2009, le renderebbe effettivamente disponibili. I parlamentari non sembrano essersi accorti della faccenda, nonostante la nostra reiterata denuncia (vedi il manifesto del 21, 24 e 28 agosto) e nonostante le pressioni fatte da Rete Disarmo che, opponendosi all’invio, ribadisce ancora oggi in un comunicato l’assenza del decreto e la necessità di monitorare da vicino gli invii, dato l’ulteriore pericolo che quelle armi vadano poi a finire a coloro che si intende combattere.

In secondo luogo, l’elenco delle armi da inviare pone svariati problemi. L’elenco include «armi nazionali» di non meglio specificata provenienza (Gladio?) e «armi confiscate» che si presume vengano dallo stock confiscato alla MV Jadran Express nel 1994. La comunizione del ministro allega una tabella che letteralmente dice: 1) «Materiale nazionale: 100 MG 42/59 + 100 treppiedi; 100 mitragliatrici 12.7; 250.000 munizioni per ciascuna delle due tipologie di armi. 2) Materiale confiscato: 1000 razzi RPG 7; 1000 razzi RPG 9; 400.000 munizioni per mitragliatrici di fabbricazione sovietica».

Una rapida occhiata «rivela» che l’Italia – dopo le solite sparate del governo Renzi, in funzione «Mogherini for Pesc», sull’aiuto ai kurdi – invierebbe loro un ridicolo cestino di guerra. Per le armi «nazionali», come è stato fatto notare da Gianandrea Gaiani su AnalisiDifesa, le mitragliatrici avrebbero a disposizione 2.500 colpi ciascuna e i kurdi, dopo qualche ora di fuoco, «potranno impiegare le mitragliatrici solo come ’clave’». Per le armi presunte Jadran il conto è ancora più inquietante. Altro che trasparenza! L’elenco è generico: alla grossa il ministro dice di fatto che delle armi Jadran il governo manderebbe in Iraq una piccola frazione, di totale irrilevanza bellica.

Si pensi che 400.000 munizioni per mitragliatrice sono una quantità, se non irrisoria, certamente molto piccola e pari allo 0,68% delle munizioni totali, 59 milioni, usate nel 2011 dalla missione «di pace» italiana in Afghanistan (L’Espresso del 7 maggio 2003).

Dove, dunque, sono finiti (e l’elenco delle armi Jadran oggi a disposizione è certamente parziale) i 400 missili filoguidati SPIGOT e le postazioni di lancio relative? Dove sono i restanti 8.000 razzi anti-carro? Dove i più di 4 milioni e mezzo di proiettili di vario calibro che mancano all’appello? E’ questa la prova – inavvertitamente fornita – che il governo Berlusconi quando era in corso l’embargo Onu inviò in Libia, con una nave militare, sia armi di Gladio che armi della Jadran, come allora denunciato da Remondino e Cipriani su Globalist? Si chiamava, signor ministro, ITS Libra (P402) la nave militare inviata in Libia con quelle armi, come da noi prospettato nel 2011?
Non c’è nessuno nell’entourage del ministro che che può dirle che i «razzi RPG-9» non esistono? Il razzo HEAT PG-9 (che si vede in una foto della DIA sulle armi Jadran) serve ad armare vari tipi di RPG, ma non l’inesistente lanciatore RPG-9? Infine, la «trasparenza» vorrebbe che il ministro dicesse che relazione c’è tra l’operazione kurdi e la messa a disposizione della Nato delle «caverne» di Santo Stefano, una volta che l’operazione del loro svuotamento (in corso da marzo, rivela la Nuova Sardegna) sia stata completata.

Lì erano custodite le armi Jadran, o ciò che rimaneva dopo l’invio ai «ribelli libici», e la prova della possibile violazione dell’embargo Onu.