Il testo è di alcuni anni fa. L’Europa è nel pieno della crisi del debito pubblico. Alcuni paesi mediterranei rischiano il default per il cappio al collo messo al loro collo in nome di «Santa Austerity». Nelle riviste, gli «opion makers» liberisti scrivono con sempre più frequenza che in fondo Karl Marx è un autore da riscoprire. In Francia, Jacques Attali ha mandato nelle librerie una biografia di Marx dove sostiene che l’autore del «Capitale» va sì riabilitato, ma «depurato» di quella pretesa che all’interpretazione del mondo deve seguire una prassi politica tesa a trasformarlo.

Una posizione non lontana dalle criptiche pagine che un altro francese, Jacques Derrida, aveva condensato nel libro di successo Spettri di Marx (Raffaello Cortina). È in risposta a questa pretesa di normalizzare il filosofo di Treviri che Christian Laval scrive una piccola e fulminante biografia di Marx. Il saggio, ora tradotto da manifestolibri (Marx combattente, pp. 93, euro 12) non si propone solo di raccontarne per l’ennesima volta la vita, ma di far emergere il fatto che in Marx teoria e prassi non sono mai disgiunte; e che la prima discende dalla seconda. In altri termini, Marx ha scritto opere importanti – il Capitale, va da se, ma anche altri manoscritti di critica all’economia politica – perché immerso nei gruppi, organizzazioni del nascente movimento operaio.

Una vita di stenti

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Le pagine che Laval dedica a Marx sono godibili e ironiche, laddove ad esempio ricorda le informative della polizia inglese, che considerava il filosofo tedesco un bohemien dalla vita sciamannata – pigro, ma poi lavora tutta la notte; senza lavoro, ma poi si chiude nel British Museum per tutta la giornata a leggere e scrivere -. Oppure quando ricorda le difficoltà economiche che lo perseguitarono tutta la vita, con il buon Engels che gli passava sottobanco i soldi per comprare il cibo necessario, pagare l’affitto della misera casa londinese o per acquistare i francobolli e i fogli di carta dove scrivere. Laval si sofferma poco sulla «genealogia» filosofica di Marx, a differenze di altre biografie uscite nel secolo scorso. Ricorda le letture che Marx fece degli storici, degli utopisti francesi o di Adam Smith e soprattutto di Ricardo.

Ne esce fuori un ritratto di Marx come un combattente, un militante che riconosce però alla teoria un ruolo rilevante in quella che Laval chiama la clinica del capitalismo, cioè un’analisi serrata del funzionamento di un rapporto sociale dove la crisi è connaturata stesso al suo sviluppo. L’importanza di Marx non è di illustrare i sintomi della crisi, bensì le cause.

Fa dunque bene Giso Amendola, nell’introduzione del volume, ha mettere al centro dell’attenzione del lettore questa «clinica del capitalismo», ma anche l’impossibilità di potere delineare un Marx «vero», «originario» da contrapporre alle diverse vulgate che hanno accompagnato la ricezione della sua opera. Se Marx è un combattente, un militante che punta a coniugare teoria e prassi, assegnando però a ogni aspetto della «coppia» una specificità che non può essere annullata, la «clinica del capitalismo» ha il suo centro propulsore nelle lotte di classe che contraddistinguono la società. È nel divenire del movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti che occorre partire per spiegare come in Marx la teoria del valore-lavoro parte dal riconoscimento che il capitale si appropria di una parte della ricchezza dal lavoro vivo. Il plusvalore non è dunque solo un’unità di misura dello sfruttamento, ma l’esemplificazione che questa violenta appropriazione privata della ricchezza sociale è l’«essenza» del capitalismo.

individualismo

Amendola avverte però che se la lotta di classe è il centro dal quale si irradia lo sviluppo capitalistico, non siamo di fronte ai conflitti originati dall’azione del movimento operaio. La lotta di classe da cui parte Laval è quella condotto dal capitale per «formare» il proletariato. Non siamo di fronte quindi a uno schema noto all’operaismo italiano, bensì a una griglia analitica che assegna agli strumenti definiti dal potere per formare e controllare il «soggetto produttivo». Un chiarimento, quello di Amendola, utile per capire come in questa fase di crisi la posta in gioco non è solo l’imposizione economica dell’austerità, bensì di come le politiche di rigore siano funzionali anche al controllo di un lavoro vivo che si sottrae ai vincoli posti dal capitalismo contemporaneo per «produrre» innovazione.

I dispositivi del potere

Christina Laval, e il sodale Pierre Dardot, hanno studiato a lungo l’opera di Marx (Dardot ha scritto un saggio fondamentale dal titolo Marx: prénom Karl che non ha però trovato ancora un editore italiano), ma hanno indagato La nuova ragione del mondo e Comune (il primo pubblicato da DeriveApprodi e il secondo in uscita sempre per lo stesso editore) proprio partendo dai dispositivi messi in campo per dare nuova forma al «soggetto produttivo». In maniera originale provano a usare Marx proprio per studiare la «produzione liberista» dell’individualismo proprietario e di come l’autorganizzazione del lavoro vivo – il mutuo soccorso, il coworking e i gruppi contro la precarietà – costituisca una resistenza alle istituzioni preposte al governo della società, funzionando come un hub di una politica della trasformazione ancora da mettere a punto.

In questo contesto, il richiamo al Marx combattente serve quindi come un invito a una rinnovata «clinica del capitalismo». Un invito che va raccolto, sapendo tuttavia che il centro populsore sta ancora il quel movimento che pervicacemente vuole abolire lo stato di cose presenti.