La collana «Idòla» di Laterza è uno dei rarissimi strumenti editoriali pensato appositamente come spazio critico dell’ideologia dominante. Tale spazio sembra quasi essere dedicato all’«esercizio della critica illuministica e del sospetto», per usare un’espressione di Salvatore Veca tratta proprio dal libro di cui si occuperà questa nota (Non c’è alternativa. Falso, Laterza).
Naturalmente la critica delle ideologie risulta tanto più fondata quanto più gli strumenti analitici utilizzati sono il frutto di una cultura alta, in grado uscire dal chiacchiericcio imperante in ambiti pubblicistico-culturali che si considerano «attuali» solo perché immersi in una temporalità quotidiana che coincide troppo pienamente con l’epoca. La contemporaneità, invece, «è quella relazione col tempo che aderisce ad esso attraverso una sfasatura e un anacronismo» (Agamben).

I vari tipi di desideri

L’analisi filosofica di Veca è profondamente compenetrata della comprensione storica, della molteplicità dei tempi della storia di cui è intessuto l’«adesso», quel Jetzeit che Walter Benjamin ha scomposto e ricostruito come insieme poliedrico. Appartenere al proprio tempo non significa aderire a tutte le sue pieghe, non significa alcuna identificazione con il suo spirito dominante.
Significa sicuramente essere anche consapevoli che a questo tempo non è possibile sfuggire. Se la contemporaneità è però una relazione tra il proprio tempo e il tempo (o i tempi) che sono in grado di farne emergere la«rivelazione», ecco che è contemporaneo, attuale, colui che «aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze» (ancora Agamben).
La distinzione netta operata da Veca tra desideri «condizionati», quelli legati alla contingenza, e desideri «categorici», quelli scaturenti dalla immedesimazione nella dimensione dei tempi molteplici, toglie alla prospettiva delle alternative necessarie e possibili ogni aura di volontarismo assoluto ed impotente.
Ritorniamo sull’esercizio della «critica illuministica e del sospetto». Uno dei pregi dello scritto è l’estrema consonanza che possiamo registrare tra parole e cose, tra concetti e strumento espressivo. Non c’è da meravigliarsene tenuto conto del rigore analitico che contraddistingue, non da oggi, la scrittura dell’autore. Proprio per questo dobbiamo prendere molto sul serio, come fa Veca del resto, i termini «illuminismo» e «sospetto» ai quali collegare la «critica». L’analisi delle forme nuove «della vecchia questione sociale» sono il luogo privilegiato della sua indagine critica. Il luogo dove Marx ha esercitato, sono parole di Veca «una diagnosi insuperata». Insuperata perché ha messo a fuoco «la tensione e la contraddizione fra l’eguaglianza nel cielo del citoyen e l’ineguaglianza sulla terra del bourgeois. L’ineguaglianza economica e sociale può trasformare la comunità democratica di cittadinanza in una comunità ’illusoria’». Illusione, appunto, e lo smascheramento delle illusioni non è il compito primario dell’«esercizio della critica illuministica e del sospetto»? E Marx non è insieme maestro del sospetto ed erede critico dei lumi?
Proprio l’analisi della suddetta tensione nelle nuove forme della questione sociale è l’elemento in cui confluiscono i molteplici itinerari del tessuto argomentativo del libro.
Il modo in cui viene affrontata la questione di genere, ad esempio, può considerarsi paradigmatico di questa logica di indagine. Il problema dell’esclusione femminile deve essere formulato in maniera molto «radicale». «Dovremmo adottare la condizione della donna come il punto di vista ’archimedeo’ grazie a quale impegnarci nella critica sociale». Tale punto di vista garantisce alla questione il suo «genuino carattere ’universalistico’».
Si faccia attenzione alla pregnanza del lessico usato che continua a muoversi tra la radicalità della «critica sociale» (sospetto) e l’universalismo problematico (lumi). «Sono convinto – sottolinea ancora Veca – che questioni di genere e di cittadinanza, nelle circostanze in cui la parola chiave è quella dell’uguaglianza, le ’circostanze dell’esclusione’, si possono mettere a fuoco nell’ottica e nella prospettiva di soluzioni a un conflitto ’distributivo’. Sono convinto esse facciano parte, a pieno titolo, dell’agenda della giustizia sociale». Nelle nuove forme, insomma, della vecchia questione sociale.

Il ritorno della casta

Nel designare la mappa dei perdenti e dei vincenti dell’attuale fase della «lotta di classe» (l’espressione è mia), se ne indicano alcune caratteristiche dirimenti. Il ritorno dello spettro di una «società castale e censuale», lo «sfruttamento, uso delle persone come arnesi, da parte di altre persone e in virtù dell’esercizio dispotico di poteri sociali», gli sconfitti «sacrificati sull’altare della lex mercatoria». Veca afferma con decisione che «tutto ciò è nel cuore della questione sociale (…). È questione sociale, punto e basta».
Cadrebbe in errore chi vedesse in questo procedimento analitico indizi di riduzionismo. Anzi proprio il riduzionismo è uno dei bersagli del dipanarsi di quel «sapere interpretativo» tramite il quale è costruito un libro tanto breve quanto ricco di argomentazioni. Un libro in cui si riconosce il valore dell’incertezza, della incompiutezza, della controversia che caratterizzano il terreno dove è necessario nascano le alternative. Però, proprio «l’incertezza della controversia, come sempre, chiede teoria». E la teoria non può sottrarsi al compito di cercare risposte alle domande «radicali».