Lo spettacolo girava già da qualche tempo, ma l’arrivo all’India per soli tre giorni (misteri di una programmazione difficile da spiegare) si è rivelato un piccolo trionfo, sebbene nella cornice forzata che il Teatro di Roma dedica al giubileo, attingendo ai titoli affermatisi alla rassegna lucchese dei Teatri del sacro. Il rosario, una favola nera mescola in realtà molti elementi tanto nobili quanto disparati. C’è il testo originario, Il rosario appunto, del grande scrittore verista e verghiano, sempre sottovalutato, Federico De Roberto, che lo scrisse prima come racconto e poi ne preparò pure una versione teatrale, anche se il suo titolo più famoso, sulla pagina come in scena, resta il possente I vicerè.

Quel racconto familiare di «devozione» quotidiana però, è stato completamente riscritto, tagliandone fuori tutti i personaggi di puro contorno, da Clara Gebbia ed Enrico Roccaforte, che ne firmano anche la regia. La loro idea vincente è stata di farlo risuonare come una vera opera musicale, attingendo a materiali originali ma soprattutto al canto popolare, non solo siciliano (che costituisce l’humus di tutta la vicenda), ma di tutta Italia. Non manca ad un tratto neanche il sospiro doloroso di Violetta/Traviata Sempre libera degg’io; e la frase finale, sorta di lapide cimiteriale su una cultura e una condizione, soprattutto femminile, ha la purezza di un verso di Pasolini in dialetto friulano. Quella musicale è dunque una seconda (ma non secondaria nell’economia del racconto) drammaturgia, creata con cura e gusto da Antonella Talamonti (anche lei come altre della compagnia allieva della gloriosa scuola popolare di musica del Testaccio).

È un lavoro d’équipe insomma, di grande livello e coesione, che prende corpo, anima e fiato nella performance straordinaria dei quattro interpreti: le tre figlie e la madre. Costei, tiranna e accecata da odio e vendette, è interpretata per altro dall’unico attore in scena, Filippo Luna, cui tocca tuonare , in gramaglie e crudeltà, contro le tentazioni umanitarie delle tre figlie. Tre creature meravigliose (Nenè Barini, Germana Mastropasqua, Alessandra Roca), donne sfiorite e messe in concorrenza dalla cattiveria materna, dalla sua rigidità morale, dal pregiudizio e dall’avarizia che hanno informato la sua vita. Non c’è comunicazione, tra la malinconia e il malessere delle figlie e la proterva arroganza materna. L’unico momento di contatto è quello della quotidiana recita del rosario, appunto.

E quella devozione ingenua e iterativa è l’unico spazio per tentare di forzare la disumanità della situazione. Come quando il rintocco a morto della campana svela la morte e il funerale del marito di una quarta sorella, che si era ribellata e sposata con un uomo non accettato dalla matriarca («vostra eccellenza», come la chiamano le tre figlie vittime), e che ora alla morte di lui resterà povera, senza un tetto e sola, con i figli da mantenere non si sa come.

Una classica tragedia del meridione, neppure tanto lontana nella nostra storia culturale, cui pure gli autori, con quella parentela formale che stabiliscono con la commedia musicale, danno un respiro e una possibilità di ascolto molto coinvolgenti per il pubblico di oggi. Oltre alla bravura delle interpreti (qualche voce è davvero strepitosa, e non inferiore è di tutte e tre la presenza scenica) ci sono piccoli elementi scenografici, come un lungo velo che si fa catena e anche percorso, a dare fisicità insolita al racconto. Su quelle musiche (comprese le utili «dissonanze» date dalle diverse origini regionali dei brani) scattano evocazioni fulminanti, come quelle delle processioni della settimana santa, rito di dolore e santità di ogni nostro sud.