Su Le cose belle di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno è stato detto e scritto molto. Anche sulla divisione di ruoli tra registi così diversi e complementari tra loro: il primo più attivo nel relazionarsi ai personaggi, con il suo lavoro di «drammaturgia sul campo», il secondo più concentrato sulla fotografia e le riprese. In questo contributo vorrei approfondire quella sorta di poetica «del non finito» che accompagna questo, come altri film della coppia, e che mi sembra attraversi in particolare il «cinema in divenire» di Ferrente.

Un demone comune ad alcuni grandi autori – ricordo il continuo riaprire il cantiere dei propri film di Alberto Grifi – portati a uscire dall’idea di testo chiuso, definito una volta per tutte. Una disseminazione di versioni filmiche in cui non conta più il tempo – economicamente inteso – la fedeltà – a un personaggio, a un montatore, a un distributore – la virilità estetica in stile «il mio film è questo». Come un blob sensibile agli anfratti da riempire, la vischiosità filmica di Ferrente espande le sue forme laddove si manifestano cavità affettive da colmare, lacune estetiche da emendare, espansioni narrative in agguato. Appunto, un cinema in divenire: un po’ come il Turner disadattato di Mike Leigh, che col proprio quadro già esposto, sotto gli occhi strabiliati dei suoi colleghi, decide di spalmare una macchiolina rossa sulla tela: la boa che si era accorto mancasse.

Se arduo resta accostare il cosiddetto reale – come orientare lo sguardo e l’udito senza sapere quello che accadrà, che si paleserà, lì, davanti all’occhio ciclopico della camera – Ferrente il reale se lo reinventa ludicamente, minuto dopo minuto, scena dopo scena, cercando di cogliere quelle connessioni latenti capaci d’ingenerare un pregnante racconto delle emozioni. È una sorta di remissione dello svelamento immediato, in cui protagonista non è la volontà di saturare un tema (croce del documentario didattico, didascalico, asimbolico), quanto la transumanza di mediazioni in attesa.

Abilità che deve anche alle doti e al felice rapporto di sintonia creativa storicamente attivato con Piperno, con il quale, appunto, gira, discute e firma diversi suoi film. Una dialettica in bilico fra auspici estetici e necessità pragmatiche: da un lato la fantastica ossessione di una continua rivisitazione dell’opera; dall’altro il rischio di film potenzialmente revisionabili all’infinito. La questione è sia «artistica» che «documentaria». Ferrente tratta i film come spettacoli teatrali, dove la prima recita non coincide mai con l’ultima: si arricchisce progressivamente di suggestioni ispirate dal feedback del pubblico, dal rodaggio degli interpreti, dall’emergere di nuove illuminazioni estetiche. Inoltre, nel caso di film «dal vivo», alcuni elementi fattuali, importanti per la drammaturgia, possono affiorare durante la presentazione/circuitazione del lavoro. Come se Ferrente li attendesse, in una ricezione sensibile e consapevole della perfettibilità del film, per scagliarli all’interno dell’opera: a questo punto «opera aperta», non più, o non solo, dal punto di vista interpretativo, del lettore/spettatore, ma proprio dal punto vista drammaturgico. L’autore stesso, in una revisione apparentemente «fuori tempo massimo» (per qualsiasi produttore normale, non per Ferrente che, spesso, i film se li autoproduce), diviene consapevole vittima di una arricchente «patologia» del non finito. Dunque un cinema sudato e umorale, la cui «bellezza» dipende proprio dalla qualità della relazione instaurata e dagli accadimenti accolti. Un cinema dal vivo che nasce all’interno di un’etica della condivisione: ciò che rende assai improbabili piani di lavorazione e «analisi dei costi» ed esalta, piuttosto, transazioni fatiche ed estetico-simboliche.

La vicenda de Le cose belle è sintomicata di tale fenomenologia degli interventi in aggiunta al film «concluso». Si contano almeno cinque versioni: dalla prima «in progress» presentata al Festival di Venezia per le Giornate degli Autori, alle successive con l’aggiunta della scena del co-protagonista Enzo che canta nel finale, fino alla più vista, distribuita dal Luce, e resistita in sala il tempo record di sei mesi – fino all’«ultima» – distribuita in dvd con una nuova scena girata appositamente per restituire il punto di vista di un personaggio prima solo evocato: Jessica, la sorella transgender di Adele.

Un percorso che ricorda quello dell’Orchestra di Piazza Vittorio (con meno «versioning» ma un simile avvicendamento di operatori coinvolti nella lunga stesura del montaggio).Opere «cantiere», laboratori della messa in forma cinematografica che valicano il mito dell’osservazione per evidenziare un orizzonte esperienziale in cui la pulsazione di alcuni momenti – i dubbi, gli smarrimenti, le epifanie della psiche – deflagra in un raffinato ascolto della relazione in atto. Così il «progetto razionale» del film diventa luogo di perenne contrattazione con il mondo: il rischio dell’incertitude eletta a sistema, ecco la potente sicurezza/insicurezza di questo cinema.