«Vogliamo che sfili una grande manifestazione, più grande del solito» scrivevamo un mese fa nell’appello che invitava a tornare a Milano questo 25 aprile. Siamo ottimisti, pensiamo che andrà così, il corteo sarà pienissimo.

Ce lo dicono le tante adesioni, collettive e individuali, l’impegno degli organizzatori, la sensazione di aver intercettato e dato voce a un desiderio diffuso. Persino cresciuto nelle ultime settimane, al crescere delle motivazioni per fare di questa Liberazione una liberazione speciale.

Al centro del nostro 25 aprile c’è l’urgente mobilitazione contro le destre estreme in Italia e in Europa, che ormai mettono in discussione o cancellano principi e diritti che parevano acquisiti. E c’è l’opposizione popolare alla guerra, ormai trattata come un punto di programma dalle massime istituzioni Ue.

Cessate il fuoco e no al riarmo sono le parole d’ordine per l’unica opzione che ci resta: la pace.

In piena coerenza con l’eredità della Resistenza, combattuta anche per scacciare la guerra dal destino dell’Europa, quella di oggi sarà anche la grande manifestazione pacifista che aspettavamo da tempo. Per una soluzione negoziale del conflitto in Ucraina a più di due anni dall’aggressione russa. E per chiedere all’Unione e agli stati europei di agire per fermare la carneficina di Israele a Gaza. Smettendola con l’avallare – di fatto – l’azione di Netanyhau, capace di annientare l’istintiva solidarietà che il 7 ottobre aveva portato a Israele, seppellendola sotto una montagna di macerie e cadaveri palestinesi.

Poi c’è il governo Meloni che quotidianamente porta argomenti e attualità all’antifascismo. Disprezzo dei migranti, accanimento contro i poveri e gli ultimi, manganellate agli studenti, riduzione degli spazi di pluralismo, attacco ai diritti delle donne.

La lista è lunga e disegna un modello di governo e un sistema di potere che non è certo una riedizione del fascismo ma che ha nel cuore una troppo simile pulsione autoritaria.

Pensare che questa «matrice» possa essere cancellata con una dichiarazione della presidente del Consiglio o di qualcuno dei suoi per la festa della Liberazione è quantomeno ingenuo.

L’impresentabilità della nostra destra non è un problema che si risolve con una mano di buone maniere e qualche parola scelta con cura nelle feste comandate. Il 25 aprile la nostra destra sarà sempre a disagio e non per ragioni episodiche, legate alle tattiche del momento di questa o quel dirigente di Fratelli d’Italia.

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Perché il nostro è il paese che il fascismo lo ha inventato e proposto al mondo. È il paese dove il collateralismo alla dittatura ha resistito al suo crollo, prendendo le armi al fianco dell’invasore nazista in una guerra civile.

È il paese della continuità tra regime e repubblica, dove i vertici dell’amministrazione fascista sono rimasti al loro posto senza un graffio, come la stele dedicata al duce.

È il paese dove il reducismo di un partito di nostalgici ha giocato un ruolo nelle vicende ufficiali della democrazia, a partire dall’immediato dopoguerra, e ancor di più ha condizionato decenni di trame occulte ed eversive.

Dunque c’è una storia lunga che precede quella dei nipotini di Almirante oggi al potere e ne ha guidato la formazione. La fiamma tricolore che arde a palazzo Chigi non si è accesa per caso né all’improvviso. Lo sottovalutano quanti chiedono di continuo abiure alla presidente del Consiglio e ai suoi meno composti commilitoni, rapidamente piazzati ovunque nel governo e nel sottogoverno. Abiure verbali che servirebbero tutt’al più a confondere.

Se una tappa della sua ascesa dovesse consigliare a Meloni di dirsi antifascista (cosa che tendiamo a escludere) non per questo lei lo diventerebbe.

Non è facile dunque il compito di chi le si oppone. Perché l’opposizione non va fatta a un’etichetta che non cambia e a una presa di distanza che non arriva, ma contro una sostanza politica che questo governo afferma e rivendica quotidianamente.

L’opposizione va fatta dunque alle torture legalizzate nei centri di detenzione amministrativa, alle condizioni infernali delle carceri dove la violenza è la regola, alle strette di mano e ai passaggi di denaro con i peggiori autocrati in nome del blocco dei profughi, all’austerità di bilancio accettata nella sostanza anche se denunciata nella propaganda, allo smantellamento dei servizi pubblici essenziali a cominciare da scuola e sanità, alla lotta al dissenso, all’impoverimento e alla precarizzazione del lavoro, all’esaltazione dell’egoismo delle regioni ricche contro quelle povere e ai tentativi di cambiare anche la forma oltre che la sostanza della Costituzione.

Dunque non è l’opposizione alla memoria del fascismo e a una fiamma che non si spegne (e si allarga persino nel simbolo per le europee) che serve, ma quella a un linea politica che non può dirsi, purtroppo, in totale discontinuità con quella di altre e precedenti maggioranze.

Per questo il 25 aprile con il suo alto valore non è una ricorrenza ma una chiamata all’impegno, una sfida, un richiamo alla coerenza di chi oggi scende in piazza, e saremo in tanti. È una data esigente. La Liberazione è una festa, non una passeggiata.