Se come diceva Derek Jarman l’immaginario produce le sue scintille più esplosive in situazioni di conflitto – nel caso del grande regista inglese il riferimento era l’Inghilterra dell’era Thatcher – allora la crisi greca è all’origine (e ancora prima della massacrante austerità imposta da Bruxelles) di un cinema che con provocatoria irriverenza sa mettere a nudo la crudeltà del sistema attuale e insieme ad essa le sue radici. Nell’ultimo decennio infatti è emersa una generazione di registi che ha spiazzato l’immagine del cinema greco in patria e agli occhi del mondo, dove coincideva con Angelopoulos o Costa Gavras – anche loro peraltro legati alla situazione politica (allora era la dittatura). Che sfida la mancanza di soldi, i tagli e quant’altro con una produzione indipendente in continua crescita, e che cerca di reinventarsi nel confronto con la realtà. Non a caso i personaggi di quasi tutte le storie sono giovani, ragazzi nell’equilibrio no future di una vita precaria nei sentimenti e nelle prospettive, massacrati dal passato (la famiglia in particolare, altro riferimento ricorrente), e dalla sua violenza come da quella delle istituzioni, polizia in testa.

Nel 2005 arriva sugli schermi Kinetta, ed è una deflagrazione. Lo firma un giovane fino allora sconosciuto, Yorgos Lanthimos, classe 1973, che in una manciata di anni diviene uno dei cineasti internazionalmente più acclamati (solo in Italia non distribuiscono i suoi film, nonostante Alps sia stato in concorso alla Mostra di Venezia, ma la nostra politica culturale è purtroppo ormai inclassificabile). Quel film, ambientato in un hotel al mare fuori stagione rompe i codici narrativi abituali, e lascia affiorare una nevrosi diffusa nell’ossessiva perfomance dei suoi giovani protagonisti. Il film successivo, Dogtooth, vince il Certain Regard di Cannes (2009) ed è candidato agli Oscar nella cinquina per il miglior film straniero. Anche qui i giovani si battono contro i padri in una dimensione claustrofobica di follia familiare e di autoritarismo che ritroviamo nel misterioso Alps (2011). Lanthimos, di cui ora si attende con ansia il nuovo film, Lobster – il primo in inglese, una sci-fi oscura con un cast che va da John C. Reilly a Léa Seyodux, Colin Farrell, Rachel Welsz – e che nel frattempo ha realizzato un videoclip slabbratissimo per i Leon of Athens (https://www.youtube.com/watch?v=ZggG4JKogNM, il pezzo si chiama Baby Asteroid), non è mai esplicito nei suoi riferimenti – « Il mio punto di partenza non è l’idea di criticare lo stato delle cose, mi interessa invece fare degli esperimenti sulla condizione umana e lasciare che lo spettatore trovi da solo le sue connessioni». Ma in questa apertura di senso delle sue immagini, e nell’inquietudine che riempie le sue storie non può non leggersi il riflesso dell’insofferenza che vive la Grecia, quel «sadismo» di relazioni squilibrate a cui è stata piegata.

Del gruppo di Lanthimos fa parte anche Athina Tsingari, classe 1966, produttrice (tra i suoi titoli Before Midnight di Linklater) che qualche anno fa ha esordito come regista con il magnifico Attenberg (2010), un romanzo di formazione femminile – ma i personaggi di donne sono un altro segno specifico del nuovo cinema greco, quasi la declinazione contemporanea, come la lotta con in padri delle figure del Mito. Narrazione anche qui affidata alla fisicità, danza, salti, morbidezza sensuale della splendida attrice (Ariane Labed, Coppa Volpi alla Mostra di Venezia con presidente della giuria Quentin Tarantino) che raccontano il desiderio stridente di trovare se stessi in una nuova libertà – il prossimo film di Tsingari, Chevalier, scritto con Efthimis Filippou, autore anche dei film di Lanthimos, sarà però tutto al maschile: sei uomini su un lussuoso yatch sfidano la noia con un gioco, Chevalier, ferocemente competitivo.

Altri registi tratteggiano invece nelle loro opere il paesaggio della crisi con maggiore evidenza. Accade in Xenia – passato velocemente anche sui nostri schermi – di Panos H. Koutras (autore già del molto interessante Strella), in cui due fratelli alla ricerca del padre che li abbandonati attraversano come in un’Odissea di oggi una Grecia popolata da razzisti, omofobi – sono a metà albanesi e il più giovane è gay – picchiatori di Alba dorata, scheletri di alberghi, negozi chiusi, frustrazione, cinismo. Dice Koutras: «In Grecia di circa 200 000 bambini apolidi, perché c’è il diritto di sangue e non di suolo. Queste persone sono nate in Grecia, sono andate a scuola in Grecia, parlano il greco come prima lingua, ma non sono greci e non potranno mai diventarlo. Ora, in tempi di crisi, è questa generazione a portarne il fardello, e non si riconosce ad essa l’essenziale: poter scegliere a quale paese appartenere».

Le piazze in rivolta, e la repressione governativa, sono il riferimento di Wasted Youth (2001)di Argyris Papadimitropoulos, che già dal titolo (preso dal nome del gruppo punk losangelino degli anni Ottanta) esprime il sentimento che lo domina mentre insegue i vagabondaggi sullo skate di un adolescente, la sua ribellione muta, solitaria, le schegge impazzite degli adulti di fronte alla crisi. Loro, i ragazzi, ne sono già consapevoli, e a questo cercano una via di fuga. Impossibile non pensare nel finale con la polizia che uccide senza ragione all’omicidio di Alexis Grigoropoulos, il ragazzino di sedici anni ammazzato nel 2008 da un poliziotto nel quartiere rosso di Atene, Exarchia.

Ha senso far nascere un bambino mentre il Paese va in bancarotta? Se lo chiedono le protagoniste di City of Children di Yorgos Gikapeppas che ha il suo senso più profondo nel rapporto tra la crisi economica e sociale del paese (continuamente rilanciata dai notiziari che si sentono durante il film) e il rapporto di quattro donne con la maternità. Scontro di classe, più subdolo perché ammantato dall’ipocrisia di una benevolenza «amicale» in A casa (Sto Spiti) di Athanasios Karanikolas, la cui protagonista, una donna rumena da anni a servizio in una ricca famiglia greca, si ammala e quando la crisi colpisce le economie i suoi «padroni» non esitano a metterla alla porta.

Inganni, menzogne, ancora violenza familiare come metafora sfrontata del declino della nazione: il passato della dittatura dei colonnelli, il presente di corruzione e impoverimento sono i riferimenti tra i quali oscilla Homeland di Syllas Tzoumerkas. E la scommessa di questo cinema è come quella greca tutta aperta.