«Non più cultura in ostaggio dei sindacati», cinguetta Renzi. «La misura è colma», fa eco Franceschini. Anche il sindaco della capitale, Ignazio Marino, sembra su di giri: «è uno sfregio per il nostro paese», tuona. Franceschini e Renzi si spalleggiano, e mentre si professano paladini del Colosseo, chiuso per due ore a causa di un’assemblea sindacale già annunciata, nei fatti  dichiarano guerra al patrimonio stesso. Perché per tenere aperti musei e siti archeologici, rendendoli quel prezioso biglietto da visita che in realtà sono per naturale dna, bisognerebbe prima di tutto sostenerli, trattarli davvero come beni comuni. Ma quella manciata di ore «rubate» ai turisti ha tenuto in scacco i vari proclami di Renzi&Co sulla cultura, divenuta una formidabile macchina per spremere consenso. Ha lacerato una maschera assai comoda da indossare, travolgendo un argomento così amabilmente «social». Il ritardo di apertura dell’Anfiteatro Flavio è rimbalzato in rete, un fiume in piena che ha rotto gli argini: i più smaliziati hanno trattato la notizia con ironia, altri con disappunto, diffusamente il «disagio» ha prestato il fianco a una denigrazione dei lavoratori, aizzata soprattutto dal governo.

A uno sguardo distratto, quella specie di tsunami che ha attraversato il Parlamento, scosso di fronte ai turisti in fila fuori dal Colosseo, dovrebbe far sperare per il meglio: i deputati, dopo anni di olgettine, feste e corruzione traversale hanno finalmente a cuore qualcosa che li rende più umani. Il soggetto, oltretutto, è bipartisan. Se il Pd nazionale ha gridato allo scandalo («non si chiude la cultura» ) e addirittura un pasionario come Pedica si è offerto volontario in veste di custode, altri a destra (e pure diversi a sinistra) ne hanno approfittato per attaccare il diritto di sciopero. Che poi era un’assemblea di due ore, come avviene in tutti i musei del mondo senza suscitare isterismi: la National Gallery di Londra ha serrato le porte per 50 volte in un anno di fronte alla minaccia di un passaggio in mani private.
Alla fine della giornata, è arrivata la schiarita: l’annuncio di un nuovo decreto-legge che inserisca la cultura fra i servizi essenziali. Bene, ha affermato il soprintendente Prosperetti, fermo restando il fatto che tutto era stato annunciato, non si è trattato di chiusura ma solo di un posticipo e avvisi multilingue erano stati esposti sui monumenti.

In vista di una privatizzazione dei beni culturali a cui si punta con ogni energia possibile – i commissariamenti sono stati una catastrofe, quindi una strada non più percorribile – ha preso forma un braccio di ferro tra sindacati e governo. Una volta ventilato lo sciopero nazionale, lo scontro è diventato epico: i custodi rivoltosi come tanti Spartaco che si rifiutano di avallare il nuovo hashtag, «la buona cultura». Vale la pena, però, fare un passo indietro per scavalcare l’onda emotiva e mediatica. E con un po’ di sano distacco, cercare di capire cosa sia realmente successo in una giornata politica la cui agenda ad hoc è stata costruita fin dal mattino.
I turisti, invece della consueta fila di almeno un’ora per entrare nel celebre monumento, ieri ne hanno fatta una un po’ più lunga. Il Colosseo – come altri siti italiani perché l’assemblea era nazionale – ha aperto più tardi rispetto al consueto a causa di un incontro fra lavoratori e sindacati. L’oggetto? La mancanza del pagamento da parte dello Stato – dal novembre scorso, quasi da un anno, del cosiddetto «salario accessorio», quello maturato per le aperture lungorario, e anche notturne. Era il frutto di un accordo che avrebbe permesso di non tenere, appunto, «la cultura in ostaggio», secondo lo slogan renziano. Però non è stato onorato: i 18,500 dipendenti del ministero aspettano le indennità accessorie (30% dello stipendio) da un’infinità di mesi. Oltretutto, siti importanti come Uffizi e Pompei non sono stati chiusi, per dare un segnale positivo. Palazzo Pitti sì: sebbene la città di Firenze pullulasse di turisti, nessuno è corso alle armi. Non sempre le richieste sindacali sono del tutto condivisibili, ma stavolta conoscere le ragioni può aiutare a dirimere la questione.

Il Colosseo è aperto sette giorni su sette, da marzo a ottobre (con visite guidate) anche di notte, eppure soffre dell’endemica e cronica malattia dei nostri beni culturali: la mancanza di organico, vuoi strumentale vuoi per difetto di finanze e tagli inconsulti susseguitisi a raffica. Se la riforma del Mibact è stata compiuta e pure strombazzata ai quattro venti – compreso il fiore all’occhiello dei vari direttori italiani e esteri insediati nei «posti chiave», – poco o nulla si è fatto per colmare quella sconfortante carenza di personale. Per fare un esempio: i custodi in ferie, durante l’estate sono stati sostituiti con persone che venivano pagate 3,5 euro l’ora, gettate nell’arena senza preparazione né alcun corso. Riempire i buchi, di corsa e con il minor danno possibile (in termini economici), continua ad essere la parola d’ordine. Nessun sistema strutturale per ovviare al disagio. Il «caso» l’ha creato il governo stesso, facendo la prima mossa, la più grave: non rispettando i patti. La cultura non c’entra proprio niente.