«Mi lasciò un biglietto sul tavolo: Io l’amo. Appuntamento a Ginevra al Café de la Paix. A mezzanotte. Mi presentai con la mia valigetta: dietro un gran quotidiano aperto c’era lui. Mi vide e disse semplicemente: ’ah, eccola qua!». La reazione che ebbe Jean-Luc Godard è la stessa provata da chi ha visto arrivare Anna Karina all’incontro organizzato dal Bergamo Film Meeting che, oltre a dedicarle un ampio omaggio che percorre la sua carriera attraverso dodici titoli, ha fatto delle tante declinazioni cinematografiche del suo volto l’immagine simbolo di questa edizione.
Anna Karina è allo stesso tempo un’icona e una testimone della Nouvelle Vague, sia del preciso momento della sua esplosione che della sua evoluzione. «Un modo di pensare e fare cinema – sostiene l’attrice – che, di fronte all’ininterrotto interesse tributatogli, dimostra di non essere affatto invecchiato. E che per me rappresenta ancora un regalo».

 
Oggi come allora il cinema può essere uno scandalo che si punisce con le sanzioni come è accaduto in Francia con i casi di censura «retroattiva» che si sono abbattuti prima su La Vie d’Adèle di Kechiche, e più recentemente su Antichrist di Lars von Trier. Una sorte simile toccò anche a La religieuse di Jacques Rivette dove Karina interpretava il personaggio di Suzanne, giovane donna che tenta invano di protestare contro i voti pronunciati non liberamente per volere della famiglia. Da un testo di Denis Diderot proposto con successo unanime di pubblico e critica prima in teatro, al solo scopo di trovare un produttore, una volta portato sullo schermo diventa bersaglio di censura. L’iniziale divieto di distribuzione scatenò una protesta che vide in testa Godard, il quale scrisse una piccatissima lettera ad André Malraux allora ministro della cultura francese apostrofandolo «ministro della Kultur».

 

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Ma Anna Karina non ha voglia di parlare di politica, e al di là di questo episodio, preferisce piuttosto ricordare la bellissima esperienza di lavoro con Rivette, o «mon Jacques» come dice lei: una persona segreta, dai suoi ricordi, che sapeva esattamente cosa voleva e cosa no.
Ad esempio, nel caso di La religieuse ha ancora in mente le discussioni tra Rivette e il direttore della fotografia che cercava di convincerlo ad articolare in più piani il film. Rivette voleva esaltare il taglio pittorico (da qui la scelta di riprendere sempre dalla lunga distanza), e neppure quando si ruppe l’obiettivo da 35 millimetri accettò l’ipotesi di un 50 preferendo radicalizzare la sua decisione con la scelta di un più estremo 28.

 
I due, Karina e Rivette, si sono ritrovati di nuovo in Haut bas fragile, un film di grande coinvolgimento affettivo per l’attrice a cui il regista aveva chiesto di portare sul set oggetti personali in modo da aumentare il grado di partecipazione emotiva.

 
Ciò che più la colpiva in lui era dove si posizionava durante le riprese: «Vedevo ’mon Jacques’ messo lì vicino, di lato, invece che dietro la macchina da presa. Ed ero abbastanza sorpresa. Mi sono sempre chiesta il perché di questa sua scelta. Non ho mai avuto la risposta, però suppongo che si mettesse in quella posizione per due motivi: uno per stare più vicino agli attori, l’altro per controllare meglio che la macchina facesse esattamente quello che lui desiderava».

 
Quello di Godard è un nome che si affaccia continuamente nella conversazione. Karina ricorda la volta che venne scelta da Michel Deville per Ce soir ou jamais. Lei ancora minorenne sottoponeva ogni proposta lavorativa al suo compagno di allora, che quando lesse la sceneggiatura di questo film la giudicò sprezzantemente «una schifezza». Per fortuna non valutò in questi termini il film ma soprattutto la sua interpretazione, che gli piacque talmente tanto da proporle il ruolo di protagonista in Une femme est une femme, ipotesi fino a quel momento neppure presa in considerazione.

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Ma l’incontro non è stato soltanto all’insegna del ricordo. Anna Karina si è soffermata più volte sul mestiere d’attrice. Lei che ha lavorato con autori dall’estetica completamente diversa, addirittura opposta (Godard in opposizione a Rivette; Rivette in opposizione a Fassbinder per non parlare di Visconti) dice di essere riuscita a dare ciò che tutti questi cineasti volevano perché si è affidata completamente a loro: «Ascolto sempre il regista. Anche a costo di sbagliarmi se lui sbaglia. Ritengo che sia l’unica cosa da fare. Il regista è l’unico che ha sempre ragione». Al di là di aspetti puramente tecnici, come l’arrivo delle macchina da presa a messa a fuoco automatica che ha permesso di liberarsi di certe rigidità del passato, il senso del lavoro d’attore rimane invariato nel tempo: è scavo, approfondimento per non mancare il personaggio.

 
Riguardo alle attuali dinamiche dell’industria dello spettacolo l’attrice riconosce che i colleghi giovani lavorano molto di più rispetto alle generazioni precedenti: la serialità televisiva impone ritmi serrati, un accumulo di ruoli senza soluzione di continuità. «Tutto quello che va molto velocemente – dice – se ne va però altrettanto velocemente. Mentre esperienze come quella della Nouvelle Vague continuo a rimanere ben impresse nell’immaginario».Alla domanda se questa costante esposizione mediatica, a cui si aggiunge la mole di pubblicità, abbia delle ripercussioni sul modo di fare l’attore «molto onestamente» dice di non essere in grado di rispondere. Quello di cui però è certa è che a suoi occhi «continua ad essere più interessante appropriarsi di un personaggio che stare a fare inchini a una banca o a una marca di lavatrici».