Dopo aver curato Una rivoluzione dall’alto (Mimesis, 2012), un libro sulle nuove forme di dominio nell’epoca della crisi finanziaria, in questo suo nuovo lavoro Alessandro Simoncini analizza il modo in cui il capitale è giunto a «catturare l’intelligenza collettiva», bloccando le sue potenzialità liberatorie (Governare lo sguardo. Potere, arte, cinema tra primo e ultimo capitalismo, Aracne, pp. 228, euro 15). Non solo i corpi e la mente, anche l’anima e l’immaginario sono stati messi al lavoro a partire dagli anni Ottanta del Novecento. Il capitale rielabora e deforma proprio quelle forme visuali e artistiche che con più fervore – nel corso del secolo passato – avevano tentato di opporre al potere il desiderio e il sogno del possibile. La riflessione di Simoncini parte dalle avanguardie storiche: le rivoluzioni del visibile operate dal cubismo, dal futurismo e dal surrealismo, sono state ambiguamente recuperate dalla pubblicità e dal cinema spettacolare. Potremmo parlare di una rivoluzione passiva o di un vero e proprio détournement (Guy Debord), che la fantasmagoria delle merci impone al loro carattere originariamente sovversivo.

Visioni pornografiche

I surrealisti citavano e deformavano oggetti di consumo all’interno delle loro opere per spiazzare e smascherare il loro feticismo fascinatorio. È poi avvenuto un fenomeno inverso: la pubblicità ha utilizzato a sua volta le invenzioni oniriche del surrealismo, per restituire aura e potere di attrazione alle merci. Mentre l’arte, da parte sua, diviene sempre più un puro valore di scambio tesaurizzabile, le visioni dirompenti dell’avanguardia vengono devitalizzate e reincorporate come decorazioni del mondo delle merci: «Produrre la forma-merce e costruire materialmente la soggettività immaginaria del consumatore saranno i due compiti principali che la macchina-capitale dovrà assolvere simultaneamente».

Le avanguardie storiche creavano vuoti e inquietanti pluralità, interrogavano il visibile, elevando a potenza le sue ombre, il suo possibile, il suo «fuori campo»; la riappropriazione mercificata dell’immagine cancella ogni ambivalenza, crea un «tutto trasparente» da cui ogni conflitto e ogni indeterminazione sono scomparsi. Ciò che è visibile è inesauribilmente asserito come unico esistente, in una luminosità continua e assoluta, in una positività che non ammette obiezione. Ogni faglia, ogni discontinuità, ogni finitezza della vita, sono abbagliati dall’«occhio vitreo» del capitale. È uno sguardo letteralmente pornografico.

Da questa unilaterale messa a fuoco del visibile viene escluso il desiderio del possibile e dell’altro. Il cinema spettacolare svolge un ruolo importante in questa recinzione del poter essere. Come la pubblicità, anch’esso riprende e mortifica il linguaggio delle avanguardie: lo choc, che originariamente doveva distogliere lo spettatore dalla sua adesione all’ordine costituito, si riduce a effetto speciale che lo riattrae stupefatto nel mondo dello spettacolo. La previsione di Walter Benjamin sulla scomparsa dell’aura non si è realizzata: pubblicità e cinema della società dello spettacolo ripropongono una pseudoaura, un «valore fantasmatico», che illumina il sorriso demente del divo o anche – come in uno spot di qualche anno fa – la merce che si srotola dal cielo simile a un’apparizione di Magritte (si trattava di carta igienica).

Se il cinema spettacolare diviene sempre più ripetizione di clichés, la cui apparente novità cela la sostanza sempre-uguale della merce, a questo destino non sfuggono nemmeno le immagini più audaci del cinema critico-espressivo. Così è accaduto – ad esempio – alla sequenza finale di «Zabriskie Point» di Antonioni, in cui la grande esplosione faceva ricadere verso il vuoto del deserto l’universo scomposto e frammentato delle merci: immagine poi ripresa dalla pubblicità per esaltare quelle merci stesse. La riduzione dell’immagine critica a cliché è il fenomeno che Simoncini ci mostra in tutto il libro: è una rivoluzione passiva dell’immaginario, speculare e parallela a quella economica, che ha distorto ogni residuo di pensiero critico negli ultimi decenni del Novecento.

Simoncini scrive di un biocapitalismo, che oltre a governare i corpi e i processi cognitivi, produce anche l’immaginario e solo in tal modo soggetti interamente sottomessi al suo ordine simbolico. Così va intesa la concezione produttiva che Michel Foucault aveva del potere: «Lo spettacolo, insomma, non produce soltanto immagini, ma anche — e soprattutto — i soggetti necessari a rendere logicamente possibile la propria stessa esistenza». Essi sono tuttavia sottoposti a una contraddizione costitutiva, a un doppio comando permanente: per cui da un lato permane l’imperativo al consumo, il «devi godere», che secondo Zizek è assolutamente indispensabile al mondo delle merci: ma d’altra parte ciò è assunto come un debito-colpa da scontare, in una colpevolizzazione del vivente, che lo trasforma in preda inerme della teologia astratta del denaro. I clown, che interpretano oggi il potere, mettono e dismettono a tempo debito il saio penitenziale e gli stracci carnevaleschi.

Il presente fuori fuoco

Come contrastare questo immaginario senza «fuori campo», senza apertura al possibile? Per quanto riguarda il cinema, Simoncini oppone l’immagine-tempo di Gilles Deleuze ai clichés di quello spettacolare, interpretando in senso decisamente politico la riflessione del filosofo francese. Le immagini-tempo (esemplari in tal senso quelle di Alain Resnais) sono capaci di «cogliere in quel passato che non è divenuto presente le aperture di un futuro possibile».

Più in generale, il pensiero critico deve disporsi come «una resistenza al presente». Se il capitale impone un’eterna attualità immota, l’immagine-tempo sfalda costantemente l’iterazione dei clichés nell’indeterminatezza di un inizio possibile. Forse questa intenzione non vale solo per il cinema, ma più in generale per quella «politicizzazione dell’arte», che Benjamin si ostinava ad opporre all’«estetizzazione della politica» operata dal fascismo (e di cui non cessiamo di subire l’eredità).