Comoara, ovvero Il tesoro, non è il più divertente né il più efficace dei film di Corneliu Porumboiu. È un film che richiede un lavoro. Il film stesso è un tesoro e per accedervi lo spettatore dovrà mettersi a pensare. La ricompensa vale lo sforzo. La storia comincia a Bucarest, nella casa di Costi. Costi è un vero e proprio signor Rossi: impiegato, sposato, padre di famiglia ordinario che la sera dopo il lavoro legge una storia al figlio prima di andare a letto. Sta leggendo quella di Robin Hood, quando lo squillo del citofono lo interrompe. È un vicino, chiede un prestito. Costi non ha denaro da imprestare. Dopo qualche insistenza, il vicino sembra rinunciare e la lettura della fiaba ricomincia. Ma il citofono suona di nuovo, costringendo il nostro padre di famiglia ad interrompersi una seconda volta. È di nuovo il vicino. Anche lui ha una storia favolosa da raccontare: la sua famiglia, un tempo ricca, avrebbe interrato il proprio tesoro nel giardino di una casa di campagna onde evitare che i comunisti se ne appropiassero. Se Costi è disponibile ad anticipare i soldi per il noleggio di un rilevatore di metalli, metà del bottino è sua.

L’immagine di Porumboiu è austera. I suoi personaggi sono persone comuni che si esprimono in maniera semplice e spontanea. Eppure, Il tesoro è una vera e propria fiaba (tortuosamente ispirata dal famoso ladro benefattore di Nottingham). O meglio, si tratta di un film che ci fa vedere il potere dell’immaginazione sulla razionalità. Porumboiu non è nuovo alle inchieste. In Police, Adjective (2009) aveva indagato da linguista l’ideologia nascosta nel dizionario dei nomi comuni. Con Il tesoro prende gli occhiali del fenomenologo per osservare come un uomo comune, un rumeno qualunque, un buon padre di famiglia «con i piedi per terra» come si suol dire retoricamente, si lasci incantare da una storiella di primo acchitto assurda.

E come intorno a sé non trovi nessuno per mettergli la pulce all’orecchio. La moglie, che in un primo momento sembra avere tutte le carte in regola per portare un po’ di buon senso, non prova nemmeno a mettere in discussione la favola del tesoro; anzi trova nella storia nazionale delle vicende che ne confermerebbero l’esistenza. Vista con gli occhi del signor Costi, la Romania sembra un paese popolato unicamente da Don Chisciotte. Costi stesso ne fa l’esperienza. Assente ingiustificato, prova a giustificandosi raccontando la verità (è andato a noleggiare un metal detector). Ma la verità non convince e solo quando Costi si inventa una storia d’amore inesistente è infine creduto e perdonato dal proprio capo.

Costi e il vicino partono dunque alla volta della casa di campagna dove dovrebbe trovarsi il famoso tesoro. Sperando che il film esca in Italia, non riveliamo se e cosa troveranno. La morale della fiaba, a nostro avviso, è indipendente dal finale della storia. L’idea geniale è mostrare come la semplice credenza che sottoterra ci sia qualcosa influenzi il presente e riscriva il passato. Ogni ipotesi che i cercatori formulano sul tesoro ha, come per magia, il potere di modificare la storia della casa del vicino.

Ora questa è una fonderia, ora è una fabbrica di mattoni, ora un bordello clandestino, ora un ritrovo di mafiosi… Porumboiu è molto abile a non esplicitare il senso delle sue metafore, lasciando allo spettatore il compito di dissotterrare il senso della storia, e dunque il rapporto tra, per esempio la casa e la Romania o il tesoro e il comunismo. Anche perché il problema non è quello di trovare un giudizio storico nascosto, ma quello di mostrare un rapporto infantile al passato che condiziona il modo di vedere il presente.