Die Soldaten di Bernd Alois Zimmermann è finalmente arrivata sul palcoscenico della Teatro alla Scala (fino al 3 febbraio), nell’allestimento coprodotto col Festival di Salisburgo, dove ha debuttato nel 2012 per volere di Alexander Pereira, allora sovrintendente della kermesse austriaca, ora del teatro milanese. Un’opera scomoda, tagliente, oltraggiosa, tratta da un dramma del più maledetto tra i rappresentanti dello Sturm und Drang, Jakob Lenz, ridotto e musicato a metà degli anni ’60 dal suicida Bernd Alois Zimmermann; rifiutata da Wolfgang Sawallisch, che avrebbe dovuto dirigerne la première a Colonia, poi revisionata, diventata uno dei maggiori scandali del teatro musicale tardonovecentesco e presto dimenticata.

 

In una cornice di denuncia della follia della guerra e della disumanità della vita militare, le cui dinamiche di corruzione morale e sopraffazione sono rappresentate con una crudezza che ricorda Büchner, Wedekind e il teatro espressionista, l’opera racconta la relazione di Marie, figlia ingenua del ricco Wesener, con il commerciante Stolzius e la successiva discesa agli inferi della degradazione che la porta ad essere prima amante dell’ufficiale Desportes e poi, da lui abbandonata, puttana della sua intera truppa. In spregio alle unità aristoteliche di luogo, azione e tempo, il testo inscena contemporaneamente eventi ambientati in luoghi e tempi diversi. Il regista Alvis Hermanis, insieme alla scenografa Uta Gruber-Ballehr, racchiude la narrazione in una ricostruzione in scala ridotta della Felsenreitschule di Salisburgo, l’antica cavallerizza arcivescovile che è ormai da anni il teatro principale del festival in cui questo allestimento ha debuttato, con un suggestivo effetto di contrappunto architettonico che sul palco scaligero inevitabilmente si perde.

 

 

Pochi e scarni elementi descrivono la casa di Marie, quella di Stolzius e della Contessa de la Roche, la caserma, il caffè dove bivaccano i militari e la casa del capitano Mary; una teca di vetro è quasi sempre presente in scena, vetrina degli eventi più truci imposti allo spettatore. Nella Vienna di inizio secolo Hermanis non certo a caso fa ruotare freudianamente tutto attorno al desiderio sessuale: i soldati si masturbano mentre Marie si veste, copulano con donne ammiccanti mentre sulle vetrate della scenografia vengono proiettati a ritmo cadenzato reperti protopornografici; sono morbosi i rapporti tra Marie e il padre (nell’ultima scena lei tenta inconsapevolmente di circuirlo) e tra Stolzius e la madre (mentre lei cerca di dissuaderlo dal fidanzamento, vediamo foto di «sculacciate»).
Le musiche di Zimmermann sono sorprendenti quanto a varietà e complessità: il serialismo diffuso fra i giovani compositori tedeschi degli anni Cinquanta/Sessanta si apre a un gusto citazionistico funambolico (una sequenza del Dies irae, i corali della Matthäus Passion di Bach, melismi del XV secolo franco-fiamminghi, il gregoriano, il jazz, l’elettroacustica), in una struttura organizzata in quindici scene, ciascuna dedicata a una forma musicale (strofa, ciaccona, ricercari, toccata, notturno, capriccio, corale, rondino, tropi).

 

Il direttore Ingo Metzmacher domina spavaldo l’organico smisurato previsto dall’autore (ensemble di percussioni fuori scena, piccola orchestra jazz e grande orchestra in buca), enfatizzando l’atmosfera cupa ed oppressiva dell’opera (il ricorrere ossessivo del timpano, la marcia militare rinforzata dai tamburi nel finale, la tessitura degli ottoni acuti stridenti doppiata da quelli gravi nell’illustrare la vita dei soldati, il contrasto straniante tra l’organo e il cromatismo jazz dell’ultima scena mentre una voce intona il pater noster ecc.).

 

Bravissimi i cantanti, dalla giovane Laura Aikin (Marie) alla più matura Gabriela Beakova (Contessa de la Roche) nel risolvere una scrittura vocale impervia, che passa incessantemente dal parlato al canto puro, dal mormorio al grido, spingendosi tutti al limite delle loro capacità vocali e attoriali.