Voce autorevole di Dante e scrittore poligrafo, Vittorio Sermonti, mancato ottantasettenne a Roma lo scorso 23 novembre, era un grande appassionato di calcio. Nel 1983 aveva pubblicato Dov’è la vittoria?, «umile cronaca di cronache» del trionfo azzurro ai Mondiali di Spagna, in realtà un penetrante saggio di filologia sulle nefandezze tragicomiche del giornalismo sportivo, ma il calcio ritorna in molte sue pagine non escluse quelle di Se avessero (Garzanti 2016), il romanzo-memoir con cui si è congedato dai lettori. Quella che segue, allora rilasciata nella sua casa sulla collina Fleming, è una intervista uscita solo parzialmente sul “manifesto” del 22 novembre 2008, quando la sua Juventus era appena reduce dalla serie B e invece imperversava l’Inter di Mourinho.

Come nasce il suo amore per il calcio e la Vecchia Signora?
A campo Testaccio, dopo una sconfitta per 3-0 contro la Roma. Avevo otto anni, fu la prima partita che vidi allo stadio, portato da mio fratello in circolare. Ricordo l’odore delle sigarette che svolazzava sulle tribune, una cosa squisita. Entrò questa squadra vestita di bianco e di nero e mi sembrò di un’eleganza assoluta, presa a pernacchie da un pubblico che oggi sarebbe considerato di gentiluomini. Gridavano all’arbitro ‘panza de vermi, cornuto’, cosette simpatiche di questo genere. La Juventus era una squadra arrembata, reduce da cinque scudetti ma con giocatori molto invecchiati. Ce ne erano due o tre calvi, il più anziano era Luisito Monti che era a fine carriera e aveva una gamba più corta dell’altra. Poi una bella coppia di terzini, Foni e Rava, un portiere cicciottello, Amoretti. In attacco c’era Borel II, Farfallino, anziano pure lui. Al suo fianco Bellini, Gabetto, Santià e De Filippis che non fecero perdere la testa ai terzini della Roma che infatti vinse facile. Erano tutti felici, io invece portavo dentro il cuore la ferita per una squadra elegante, sconfitta e vilipesa. La distinzione degli uomini, dei gruppi e delle squadre tra vincenti e perdenti è l’ultima spiaggia della cretineria, però devo ammettere che la Juve mi toccò in quanto perdente. E non c’è niente di più esaltante di una squadra perdente che vince quasi sempre. Come diceva Luigi Pintor, io stavo per gli indiani. Che però vincevano anche. La Juve è stata il mio primo vero amore, durato più di settant’ anni, un amore molto solitario: ci vollero quattro anni per conoscere un altro juventino, il mio compagno di banco in seconda media. Veniva da Torino e si chiamava Granata, però era juventino.

La dolce regressione adolescenziale del calcio?
Quando ero bambino non si girava molto per l’Italia, io al massimo mi ero spinto fino a Santa Marinella in villeggiatura e una volta con mio padre, che era curatore fallimentare di una compagnia mineraria inglese, addirittura fino a Ragusa. Il calcio allora era il mio modo di viaggiare con la mente e conoscere il paese. Avevo una grande passione per i nomi geografici, studiavo le cartine, guardavo le fotografie delle squadre sul Calcio Illustrato e provavo a immaginare le città. Ho amato follemente Bergamo per via dell’Atalanta, Trieste per i rossoalabardati della Triestina, Lodi e il Fanfulla. Mi erano care Novara e le città con squadre bianconere: Udine, Cesena, Viareggio, Ascoli. Sognavo Venezia e la vedevo attraverso i volti di Fioravanti, Piazza, Di Gennaro, Puppo, Stefanini, Loik, Alberti, Mazzola: quando ci sono andato ho visto che in effetti una certa somiglianza c’era davvero. E poi il Genoa con quel nome straordinario, il Liguria, la Samp, il Livorno di Piana, Stua, Alacci e Degano. Anche l’Europa ho cominciato a frequentarla così: con il Rapid ho sognato Vienna, con il Ferencvaros Budapest: era una passione per la conoscenza che assomigliava un po’ all’invidia. La mia tendenza era di amare tutte le squadre, questa è la cosa scandalosa. Dipingevo le figurine, divisa per divisa, e i nomi di battaglia delle squadre erano una vera epopea in cui non si dovevano piangere i morti: i canarini del Modena, i lagunari del Venezia, gli incantevoli labronici del Livorno. Il Bologna aveva una varietà di epiteti: i bolognesi, i rossoblu, i felsinei, i petroniani. Mi piacevano moltissimo i galletti del Bari che giocavano sull’Adriatico, come Enea. Era difficile definire analogicamente quel tipo di epica, era un’epica assoluta. Anche per un bambino come me che aveva visto San Lorenzo dopo il bombardamento, una scena che eccedeva la mia possibilità di registrare il reale e mi aveva costretto a rassegnarmi all’epicità del cruento.

Le radiocronache di Carosio suggestionavano la sua geografia calcistica?
In modo decisivo, anche se nella sua voce c’era qualcosa di non gradevolissimo che aveva a che fare col dentifricio. Mi scocciava un po’ quando raccontava la nazionale per il tipo di tifosaggine cui si sentiva obbligato, però era anche molto signorile nella generosità con cui trattava i perdenti.

Va ancora allo stadio?
Col cavolo, alla mia età preferisco evitare le bronchiti e non mi piace il tifo per branchi. Dicono che questa sia la vita del calcio moderno, io ne faccio volentieri a meno.

Dunque si accomoda in poltrona davanti alla tv.
Lo so, è tutta un’altra cosa. Manca il verde del campo, l’odore dell’erba, la puzza di quello che ti sta a fianco, magari perdersi il gol perché la porta è impallata da un palo. Continuo a pensare che sia meglio avere una percezione fallace della partita che rivedere quaranta volte il labiale di un giocatore. Però faccio buon viso a cattivo gioco e il calcio in tv lo guardo lo stesso perché resta uno spettacolo fantastico. Quello che non sopporto davvero è il ricatto di giocare alla sera tutti i giorni della settimana. Ho anche altro da fare, ogni tanto vedo degli amici, suono il violino nei ristoranti. Mantengo una certa dedizione per la domenica pomeriggio perché è una ricorrenza, la messa dei non credenti. Ma ora vanno in campo pure di giovedì sera, per colpa del rugby e io allora non ci sto più.

Da tempo il calcio si è trasformato in un business…
La primavera scorsa ho partecipato ad una tavola rotonda organizzata dall’Aspen Institute. C’erano Donadoni, Del Piero, Cobolli-Gigli, sindacalisti, finanzieri. Argomento: il calcio come spettacolo, come centro di affari, come istigatore di violenza. Tutte chiacchiere molto interessanti, anche molte banalità. Il più intelligente mi era sembrato Donadoni, che almeno sapeva di cosa stava parlando. Io non volevo intervenire ma a un certo punto non ho potuto farne a meno: il calcio come forma suprema dello sport – ho detto – è un attività che educa i giovani alla lealtà, all’orgoglio e dunque è una virtù civica. D’altra parte il calcio produce ricchezza e quindi è inserito nella complessità misteriosa della produzione del Pil. Da ragazzino giocavo a calcio anche io, piuttosto bene per la verità. Che questo giocare al calcio mi promuovesse dal punto di vista civico è possibile, però correvo appresso ad un pallone perché mi divertiva. Il calcio è uno sport ma anche un gioco: è un sistema che implica abilità, ingegno, spirito di squadra, fortuna. E’ un gioco d’azzardo ma resta fondamentalmente un gioco. E l’unica cosa che mi interessa nella produzione di forme è proprio quel verbo che in italiano ha troppe forme e invece in francese, inglese e tedesco è indicato da una sola parola: spiel, play, jouer. Che è insieme giocare, recitare (cioè fare finta) e suonare. Ecco, questa è la mia vocazione perché c’è sempre un modo di orientare il Narciso. Impossibile non averlo in sé, altrimenti saremmo degli scocciatori. Ma quel che conta è il modo di essere leggeri col proprio Narciso, divertirsi a buttare un sasso e vedere la faccia che si deforma, divertirsi a essere un altro, a essere in qualche modo undici: cioè se stessi e altri dieci.

I tifosi della Juve detestano l’Inter come mai prima. Non sarà mica che si rivedono un po’ nello strapotere nerazzurro?
Non saprei, non frequento molti tifosi della Juve perché se li frequentassi non sarei un tifoso della Juve. Però ho trovato molto antipatica la gestione dell’Inter negli ultimi anni, un bel giro di vergini urlanti che reclamavano scudetti abusivi e si lagnavano per aver vinto troppo poco rispetto a tutti i soldi spesi da Moratti. In realtà io ho una radicale simpatia per l’Inter perché è una squadra che dalla fine della guerra è sempre stata simmetrica alla Juventus, antagonista ma simmetrica. E quindi la terra sia lieve ai nostri valorosi avversari… Mi è simpatica perché paghiamo nello stesso modo, loro in un senso, noi in un altro. Non amavo Herrera ma nella sua Inter c’erano giocatori che adoravo, uno per tutti Picchi. Poi Burgnich e quello svitato di Corso. Oggi schierano solo calciatori stranieri e pur non essendo io uno spirito sciovinista, non mi fanno impazzire. L’unico indigeno della squadra è quel Materazzi, giocatore anche valido ma non particolarmente simpatico, anzi odioso nei limiti e nel profilo. In realtà dell’Inter non me ne importa nulla, meglio il Villareal che qualche italiano ce l’ha, il giovane Giuseppe Rossi per esempio. E anche se molti tifosi della Juve si vantano di essere gli antagonisti dell’Inter, temo che i veri antagonisti dell’Inter siano ahimè quelli del Milan.

Berlusconi capisce davvero di calcio o ha solo capito meglio degli altri come utilizzarlo?
Tutte e due le cose. Meglio di chiunque altro ha capito come sfruttare il calcio a fini politici ma ha anche saputo dare un’ossatura alla sua squadra. A differenza di Moratti che per vincere uno scudetto ha dovuto alzare un polverone e comprare venti fuoriclasse, Berlusconi ha tirato su una squadra che aveva come base gente razzolata sul posto come Maldini, Baresi, Albertini, Costacurta. Dopodiché ha aggiunto due o tre campioni. Il problema è che Berlusconi ama fare il competente da bar anche quando non ne avrebbe bisogno, è la sua potente pulsione alla demagogia. Fa lo spaccone ma non è uno scemo, oserei dire che è stato anche più bravo dell’Avvocato Agnelli che come lui aveva una predilezione per il bel gioco ma spesso prendeva fuoriclasse che nella Juve combinavano poco. Baggio per esempio è stato uno dei più bravi giocatori italiani del dopoguerra ma alla Juve la squadra non gli ruotava intorno e lui non sapeva ruotare dentro alla squadra, era un orologio che andava un po’ troppo svelto e quindi non serviva a niente. Certo l’Avvocato che nel ‘50 annuncia dallo yacht di aver comprato Rinaldo Martino, l’argentino con l’orecchio morsicato, beh quello resta insuperabile anche per Berlusconi. Agnelli non era prevalentemente un padrone, era un tifoso: l’ho visto arrossire dal piacere non quando la Juve faceva un gol ma quando la Juve entrava in campo. Allungava il collo e diventava rosso. Nutriva una passione radicale.

Le è mai capitato di dubitare del suo amore bianconero?
C’è stato un periodo in cui ho rischiato davvero di abbandonare la Juve, quando ho lavorato al Teatro Stabile di Torino tra il ‘75 e il ‘79.

Non gradiva la prima Juve di Giovanni Trapattoni?
Una squadra eccellente ma all’epoca c’erano tifosi che scrivevano sui muri «10, 100, 1000 Superga». Poi c’era una scritta colossale a corso Taranto, «Prendi il kalashnikov, prendi il fucile, derby uguale guerra civile». Provavo schifo per l’odio, in strada ammazzavano già troppa gente.

Gli ultrà degli anni ’70 peggio di Moggi e Girando?
Due anni fa quando esplose lo scandalo di Calciopoli, la mia passione si stava in effetti un po’ afflosciando. Però se uno ama pazzamente una donna e scopre che è una puttana, le vuole molto meno bene ma continua ad amarla lo stesso. Ho sempre detestato Moggi e ancor di più quel torinista di Giraudo: cercavo di far finta che non esistessero, invece esistevano e ostentavano, soprattutto il primo, un cinismo di massa mortificante. Una delle forme più perniciose di volgarità.

Lei era solito frequentare dirigenti bianconeri di un’altra epoca.
Una volta andavo allo stadio tutte le domeniche, in tribuna d’onore perché all’epoca ero imparentato alla grande famiglia. L’Avvocato aveva per me una certa gratitudine perché in qualche modo contribuii a determinare l’acquisto di Altafini. Alla fine del campionato del ‘72 ci fu una piccola riunione con l’Avvocato, Boniperti e l’allenatore Vycpalek, io ero lì per caso. Si trattava di rafforzare un attacco non proprio straordinario. Boniperti voleva Chiarugi, nei confronti del quale aveva una certa invidiosa stizza perché l’ala sinistra della Fiorentina si buttava sempre per terra e rimediava due o tre rigori inesistenti a campionato, soprattutto contro la Juve. L’Avvocato invece aveva una piccola passione per Maraschi, centravanti del Lanerossi Vicenza di una certa concretezza ma di classe molto scarsa. Vycpalek sosteneva che l’ideale sarebbe stato prendere il vecchio Altafini e utilizzarlo non a tempo pieno ma per i finali di partita. Io appoggiai l’allenatore dicendo anche qualche parola in ceco e la bilancia pendette per Altafini che fu un acquisto fantastico. Era noto come il Coniglio e in effetti non era certo un giocatore eroico ma era molto simpatico e anche la sua conigliaggine non mi dispiaceva.

La serie B per la Juve è stata inferno o purgatorio?
Un purgante, in linea di massima. Ho visto tutte le partite della Juve tra i cadetti, non ne ho persa una. Hanno riso di noi perché siamo finiti a giocare con l’Albinoleffe, squadra peraltro eccellente che la Juve non è mai riuscita a battere. Bè, l’Inter s’è presa uno scudetto abusivo giocando in serie A contro il Trevisoche ha meno tradizione dell’Albinoleffe. Ho grande stima per i fuoriclasse che sono scesi in B con la Juve: Buffon, Nedved, Camoranesi, Del Piero, Trezeguet, quattro di loro finalisti della Coppa del Mondo. Hanno dimostrato un attaccamento e una morbosità difficili da trovare altrove.

Al contrario di Ibrahimovic che è andato a far grande l’Inter…
Benché sia banalmente un fuoriclasse, lo svedese non mi stava affatto simpatico neanche quando giocava con noi, figuriamoci ora che rischia di far gol alla Juventus, infamia assoluta. Non era tanto per la sua indolenza, quanto per un certo modo di darsi delle arie. C’è modo e modo, Camoranesi per esempio è uno che non fa tanto di farsene accorgere però sa darsi un certo tono. Capisco che stia antipaticissimo agli avversari ma lo adoro, quasi quanto Nedved, che è un finto ceco. Non credo esistano giocatori da Juventus, piuttosto giocatori da me e non da me. Alla fine degli anni ’50 avevo grande simpatia per un’ala che rilanciava la palla di punta, ingovernabile per i poveri attaccanti: si chiamava Dell’Omodarme e anche se non valeva niente, stravedevo per lui.

Le sarebbe piaciuto vedere Zeman alla Juve?
Per carità, un Parsifal del calcio puro e temerario che però non sa né cantare né sorridere e questo è molto sospetto: quelli che ce l’hanno sempre con te senza conoscerti, non mi piacciono.

Una volta gli intellettuali si vergognavano a fare coming out sul calcio. Alcuni si mascheravano da cronisti per poter scrivere di pallone. Soldati, Arpino, Salvatore Bruno…
Soldati mi piaceva. Talvolta mi convinceva molto, sul giornalismo sportivo per esempio. Intelligente, spiritoso, juventino. Su lavori più articolati mi convinceva meno. Arpino era bravo ma noioso, troppo una brava persona per essere interessante. Anche Bruno era juventino, lessi L’allenatore cinquanta anni fa, una lettura giovanile. Ci siamo conosciuti e frequentati, poi persi di vista.

Il linguaggio epico del calcio è morto negli anni ottanta, con Gianni Brera?
A me sembra che Brera sia uno di quei miti del cavolo che nessuno può discutere, super partes dunque santi subito, la rovina dell’Italia. A personaggi così vengono dedicate immediatamente stazioni di metropolitana e gallerie, l’Arena di Milano nel caso di Brera, con l’autocertificazione dei giornalisti sportivi. Aveva molto talento ma scriveva parodie involontarie di Gadda. Inoltre, il peggio del razzismo nordista era già presente in Brera. Così il peggio di certe smorfie della sinistra sta in certi giornalisti di sinistra oppure in certi attori che pubblicizzano un’immagine miseranda dell’essere italiani: vili, ignoranti, zozzoni. Personaggi molto dotati come Brera o Alberto Sordi hanno fissato e caratterizzato dei modelli dell’italianità assolutamente nefasti. Diceva il povero Pavese: io non amo l’Italia, amo gli italiani. Io temo di poter dire: non amo gli italiani, amo l’Italia. Questo sia detto anche se suona male. Amo l’Italia e chi la abita ma come comunità la trovo orribile e se gli italiani mi votassero come capo del governo, andrei in esilio perché capirei di essere un esponente del popolo della De Filippi, delle lotterie in prima serata, della gente che va in tv sudata e scamiciata per vincere quarantamila euro, umiliata dalla propria vanità.

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Sermonti e una Commedia umana.

Potrebbe sembrare, questa intervista, un gesto di pura signorilità ma è invece un contributo di autobiografia esplicita da parte di uno scrittore che come pochi altri ha praticato l’arte della dissimulazione o, meglio, ha coltivato l’arte sopraffina di manifestarsi quasi per procura, dislocandosi e celandosi, altrettanto, in spazi e tempi diametrali rispetto al proprio hic et nunc. Il luogo elettivo di Sermonti è a migliaia di chilometri da Roma, è a Praga, la città sorpresa in perpetuo crepuscolo e abitata da un popolo di individui semivivi, la stessa che continua a parlarci da uno dei più singolari libri del nostro mai concluso dopoguerra, Il tempo fra cane e lupo (Bompiani 1980). Viceversa, il tempo per lo scrittore romano è quanto di più lontano dal presente e dalla sua immediata percezione, perché coincide col passato remoto, alla cui perfezione etimologica la Commedia di Dante ha conferito l’evidenza di un grandioso fenomeno naturale. E Sermonti, in effetti, è la sua voce contemporanea: ciò significa, semplicemente, che non ha rigettato né eluso, come pure sembrerebbe, la micidiale esca del suo tempo (in termini di polverizzazione, magma, discontinuità e assoluta relatività dell’esperienza) ma che l’ha altrimenti introiettata e l’ha usata, semmai, per un fine ben più paradossale: nel secolo di Ezra Pound e Samuel Beckett, Sermonti non ha scelto di celebrare o tanto meno di mimare il Kaos ma, al contrario, lo ha avallato e tradotto al modo di colui che rifiuti di farsene il servo o il complice stolto. Perciò ha scelto di farsi grammatico e di prestare la sua voce (con la filologia che diviene ad ogni verso esecuzione e scrittura en situation) a Dante, l’autore più antipode all’oggi, dove il Cosmo non è affatto nostalgia di esso, ma espressione primordiale, tangibile realtà, totalità espressiva. Per lui, Sermonti, attraversare tutta quanta la Commedia equivale a serbare l’esperienza e il ricordo dell’integrità umana nel mondo della alienazione e della programmatica disintegrazione che il presente, postmoderno o cosiddetto, ha codificato al punto da farlo presumere eterno.
Così, ora alla maniera di adorati fantasmi ora invece di spettri fuori orbita, tornano nella sua conversazione le immagini e i luoghi del calcio, quali frammenti di un’epica minore e tuttavia irredenta: il vecchio campo di Testaccio, la Juventus, i campioni di ieri e l’altro ieri ma anche gli scrittori che sente consanguinei nel vincolo di una medesima passione, come Mario Soldati (specie nell’inserto centrale di Le due città, 1964) e Salvatore Bruno, nel cui unico romanzo L’allenatore (1963) l’amore per la Juve simula lo scacco di un’intera educazione sentimentale e coincide con il testamento di un uomo alla deriva, con l’oppio pur sempre necessario a chi ignora o paventa il destino della sua esistenza. Che il calcio prometta l’impossibile da mantenere, che alluda di continuo, e con un’enfasi di princisbecco, a quanto la realtà si incarica di contraddire (certezze identitarie, primati, trionfi) e che infine esibisca con la massima posta il suo inganno radicale (salvezza, redenzione, anzi resurrezione), tutto ciò Vittorio Sermonti l’ha sempre saputo. Quando questo Paese, dopo la vittoria ai Mondiali di calcio del 1982, si abbandonò ad un’orgia di nazionalismo redivivo scoprendo, si disse allora malamente, un comune sentimento di italianità, Sermonti si mise al lavoro e concluse in pochi mesi Dov’è la vittoria? Cronaca delle cronache dei Mondiali di Spagna (1983), un’opera di superba filologia, relativa alla stampa quotidiana, che coglie l’ambivalenza di un trionfo sportivo e mediatico che fu peraltro una catastrofe dell’opinione pubblica e del senso comune: vale a dire un trionfo della smemoratezza più caotica e insieme il beato elogio di un Cosmo parodistico. Nemmeno è un caso che solo pochi mesi dopo Vittorio Sermonti abbia intrapreso il suo lavoro ventennale su Dante: con ogni evidenza, l’altra che si era appena lasciata alle spalle, la Commedia del calcio, era certamente una commedia umana ma, ai suoi occhi, era ormai persino troppo umana. (massimo raffaeli)