Non è nuovo al lavoro della critica poetica e letteraria, Matteo Bianchi, se è vero che proprio il lavoro critico rappresenta una delle tre declinazioni principali della sua personalità pubblica: poeta a sua volta e promotore culturale, Bianchi scrive di poesia e letteratura su quotidiani e riviste anche specializzate, ed è direttore del semestrale «Laboratori critici».

IL SUO ULTIMO LIBRO, Il lascito lirico di Corrado Govoni. Dai crepuscolari sul Po agli influssi emiliani (Mimesis, pp. 198, euro 18), sembra ora proiettarlo verso un territorio specificamente scientifico e filologico, per la sostanza del lavoro svolto. Smesse le vesti del critico, per quanto sensibile e raffinato, qui Bianchi assume quelle dell’ermeneuta tout court e il suo sguardo risulta completamente votato alla comprensione profonda dei testi indagati. Opera per opera, tema per tema, e spesso – all’interno di un singolo testo – anche parola per parola. L’oggetto dell’indagine è in primo luogo la poesia di Corrado Govoni. Ed è anche un atto di riconoscenza e d’amore, perché Govoni e Bianchi condividono Ferrara quale città d’elezione: Bianchi per esservi nato e per avervi sempre vissuto e vivervi tuttora; Govoni per averla come minimo sempre conservata nell’orizzonte del cuore, pur essendo nato non a Ferrara ma in un piccolo paese di provincia (Copparo) e pur essendone rimasto spesso lontano. Ma ecco: al di là dei dati formali, Govoni può essere considerato a tutti gli effetti un autore ferrarese; ed è l’autore che tutte le successive «tendenze letterarie della provincia e di quelle emiliane limitrofe» hanno continuato a tenere, fino ad oggi, come loro costante «punto di riferimento» (magari anche senza esserne sempre consapevoli).

È QUESTO il gesto di riconoscenza tributato da Bianchi a Govoni, dal quale nasce il libro stesso: questa disponibilità ad attribuire a Govoni un ruolo di riferimento, di capostipite. Ma forse sarebbe corretto parlare di un padre, più che di un capostipite. Bianchi è subito molto chiaro, in proposito: «Non si può parlare di epigoni nella misura in cui Govoni non fece scuola, sia perché non fu presente in loco a sufficienza, sia perché non gli interessò condividere il suo approccio lirico. La sua relazione con lo spazio esterno si svolse da una poltrona di solitudine, alla maniera di Montale». E non è forse, questo, un gesto anche d’amore oltre che di riconoscenza? Il fatto di conferire implicitamente a Govoni, da parte di Bianchi, quasi la statura di un «padre»: vale a dire di una figura con la quale, in un modo o in un altro, non si può evitare di fare i conti. Ma la filologia di Bianchi non si concentra solo sui testi di Govoni, bensì si allarga a quelli di tutta la schiera degli autori successivi che di Govoni hanno fatto un loro «punto di riferimento». Ed è giusto: perché altrimenti non sarebbe possibile compiere un’affermazione simile. Bianchi, dunque, non solo enuclea i tratti principali dell’inclinazione poetica di Govoni: una certa vena malinconica e predisposizione al ritiro intimistico del sé.

MA COMPIE, poi, anche una vastissima ricognizione della produzione poetica ferrarese e limitrofa da Govoni in avanti, fino ad oggi (pensiamo ad esempio ai nomi di Roberto Pazzi, di Rita Montanari, di Angelo Andreotti, di Roberto Dall’Olio): ed è questa ricognizione a consentirgli di affermare che quell’inclinazione perdura, ed è viva tuttora – sopravvissuta al padre da cui proviene e perfino amplificata, da ultimo, dal terremoto del 2012 (il cui «dolore inarginabile» ha costituito appunto un’occasione «per ritrovare quella vena intimistica»). Oltre che un testo di ermeneutica, Il lascito di Corrado Govoni è in ogni caso anche una biografia, letteraria e sentimentale. E ciò che si capisce, sottotraccia, è che Bianchi riconosce a Govoni la statura di un «padre», anche rispetto a sé stesso.