La Camera Usa ha un nuovo presidente (il teocon del Wisconsin Paul Ryan), che all’inaugurazione ha rifiutato di abbracciare Nancy Pelosi (per evitare l’effetto boomerang che la foto avrebbe avuto con i teapartisti) e che ha già detto che non collaborerà con Obama per sbloccare la legge sull’immigrazione arenata da due anni. Il novantunenne ex presidente George Bush lancia scarpe contro il televisore alla mera apparizione di Donald Trump, micidiale torpedo nel fianco della campagna elettorale del figlio prediletto Jeb.

Hillary è sopravvissuta brillantemente alla commissione parlamentare di Bengasi, alla tradizionale apparizione su Saturday Night Live e allo spettro di un’entrata di gara di Joe Biden; e il «New York Times» dedica un articolo al fatto che Bernie Sanders non è espansivo con gli elettori e non abbraccia i bambini. A circa due mesi dalle primarie di Iowa e New Hampshire l’aria elettorale si respira sempre più. Alla sera in tv manca il sarcasmo catastrofico di Jon Stewart, che avrebbe fatto miracoli di comicità con la guerra dichiarata dal partito repubblicano allo sfigatissimo network finanziario Cnbc, responsabile, dice il presidente del Gop, di aver sabotato l’ultimo dibattito. Ma sui canali all news le presidenziali – per quanto nemmeno ufficialmente incominciate- hanno ormai la meglio su tutto.

Dai piccoli ai grandi schermi, è normale che in autunno l’aria della politica si mischi a quella degli Oscar, dietro alle cui campagne si nascondono ormai intrighi da Scandal. Tre anni fa, per evitare controversie alla vigilia delle elezioni, la Sony aveva posticipato l’uscita del film di Kathryn Bigelow, Zero Dark Thirty, da ottobre a dicembre. Il film è stato ipercontroverso – ed è tra l’altro appena tornato sui giornali grazie a un articolo di Seymour Hersh per la «London Review of Books» in cui la storia dell’uccisione di Osama Bin Laden viene completamente riscritta dal reporter che svelò al mondo il massacro di My Lai. Nell’autunno del 2014 non c’era in ballo una corsa alla Casa bianca ma American Sniper di Clint Eastwood è venuto a simboleggiare la spaccatura tra l’America blu collar che ha comprato oltre trecentocinquanta milioni di dollari in biglietti per vedere il film e l’élite politico culturale che lo ha prodotto.

Il titolo hollywoodiano politicamente più esplosivo dell’anno non correrà agli Academy Awards perché esce in gennaio (poche settimane prima del «caucus» dello Iowa) ma, nonostante finora se ne siano visti solo dei piccoli pezzi, è già cult. Come Zero Dark Thirty e American Sniper, è tratto da un recente capitolo della storia Usa. Alla regia non l’intelletto feroce di Bigelow o l’intuito straordinariamente limpido e sovversivo di Eastwood ma un regista il cui brand di cinema ha necessitato di un neologismo tutto suo: «bayhem», e cioè un misto tra (Michael) Bay e mahyem, ovvero caos, calamità.

L’autore di Pearl Harbor, di quattro Transformers e dell’auto ironico Muscoli e denaro è infatti l’uomo scelto dalla Paramount per portare sugli schermi 13 Hours. The Secret Soldiers of Benghazi, dal libro del rispettato giornalista Mitchell Zuckoff (autore anche di una bella biografia orale di Robert Altman), che racconta l’attacco al consolato americano in Libia in cui, l’11 settembre 2012, persero la vita l’ambasciatore Chris Stephens e tre uomini della sicurezza dal punto di vista di un commando di sei ex delle Forze speciali che tentarono di soccorrerli.

«Stand down», state fermi, è bastata quella battuta, genialmente inserita nel trailer del film già in agosto, a mandare in tripudio i commentatori di Fox News, promotori di una nota teoria del complotto secondo cui Washington – se non Hillary Clinton in persona – avrebbe bloccato i soccorsi e quindi sostanzialmente decretato la morte dei quattro americani. Anni di inchieste e testimonianze sul caso Bengasi hanno contraddetto la teoria e non sono riusciti per ora ad arginare la candidatura di Hillary.

OUR BRAND IS CRISIS

Chissà però che effetto farà (all’inizio della stagione delle primarie) vedere – dal filtro eccessivo, grottescamente macho, probabilmente gingoistico del bayhem- l’ambasciatore Stephens bloccato in un edificio in fiamme mentre sei palestratissimi mercenari americani, sfidando gli ordini di Washington, cercano di salvarlo da una folla di fondamentalisti urlanti. Nelle dichiarazioni rilasciate Bay dice di essersi attenuto ai «fatti» descritti nei libro di Zuckoff e dai mercenari. Alcuni degli stessi contractors hanno partecipato ieri a un incontro stampa ristretto tenutosi a New York su cui la Paramount ha messo l’embargo. Lo Studio sa di avere in mano una patata bollente – in un primo tempo aveva pensato di posticipare l’uscita del film (ma sarebbe stato ancora peggio). Dalla Libia, intanto, sono già arrivate le proteste preventive contro 13 Hours, perché a estrarre l’ambasciatore morente dall’edificio e a portarlo all’ospedale sono stati i libici, non gli americani, che nel corso dell’azione avevano perso le sue tracce.

Ancora cinema sull’effetto pericoloso di un intervento Usa all’estero. Ma dall’estetica iper-turgida, bombastica, destrorsa di Bay si passa a un film acido, tagliente, «di sinistra», liberamente ispirato da una campagna elettorale realmente avvenuta e da un documentario che l’aveva raccontata, nel 2003, Our Brand Is Crisis – Il nostro brand è la crisi – di Rachel Boynton. Interpretato da Sandra Bullock, diretto da David Gordon Green (Pinapple Express) e prodotto da George Clooney, il nuovo film appena uscito in Usa mantiene il titolo del documentario ma trasforma in una donna (Bullock) il protagonista della storia, ovvero il consulente politico americano che nel 2002 architettò la vittoria alla presidenza della Bolivia di Gonzalo Sanchez de Lozada, detto Goni, il candidato dell’oligarchia e del Fondo monetario internazionale.

Nella realtà, il consulente di sopra apparteneva al gruppo di Washington cofondato da James Carville, lo stratega cajun che portò trionfalmente Bill Clinton alla Casa bianca nel ’92. Nel film di Gordon Green, Bullock è «Calamity» Jane Bodine, machiavellica star del backstage elettorale a stelle e strisce, ridotta a far tazze di terracotta in una baita dopo essere andata in tilt durante una campagna di troppo. Assunta per risollevare le sorti di un candidato sudamericano ricco, pigro e impresentabile, che sta perdendo terreno rispetto a un giovane, carismatico populista, Calamity Jane fa esattamente cosa le hanno chiesto: impugna l’arma della paura, si inventa una «crisi» che solo un «esperto professionista» può risolvere e fa dell’impresentabile Joaquim de Almeida il capo del governo della Bolivia.

Il cinismo dello sguardo sulla macchina politica che fa eleggere de Almeida (e, a suo tempo, fece eleggere «Goni») è ovviamente inteso nel film anche come une riflessione sul presente. Clooney è un produttore illuminato, il cinema che gli piace ha la sua radice nell’impegno politico di autori anni settanta, come Sydney Pollack, anche se qui il tono è più lirriverente. Quello di Our Brand Is Crisis è il modello di intervento americano «light» senza «boots on the ground», i mercenari armati fino al collo. Ma la sollevazione popolare che conclude il film prova che gli effetti sono spesso molto simili.