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Guardato con sospetto da molti suoi contemporanei, Henry David Thoreau ha trascorso un’esistenza in cui la sua speculazione teorica doveva trovare corrispondenza nella realtà, quest’ultima non un dato muto ed equivocabile bensì seminata di splendore e di lotta per una visione del mondo capace di senso. Certo sarebbe riduttivo ricordarlo solo per quei due anni e due mesi in cui decise per il distacco dal «consorzio civile» trasferendosi sulla riva del lago Walden, nel Concord in Massachussetts. Quando cioè all’età di 28 anni, abbandonati i privilegi della sua collocazione sociale, si costruì una capanna e si mise a riflettere sulla natura e su se stesso. Di quel breve soggiorno di osservazione abbiamo notizia dal suo libro forse più noto Walden, or Life in the Woods, pubblicato nel 1854. Da allora il testo ha fatto il giro del mondo tanto che ancora oggi se ne parla e discute come uno scrigno poeticamente suggestivo e di forte attualità politica. Giudicato per le sue scelte solipsistiche e ai bordi della società, Thoreau ha invece vissuto pensando che la filosofia non possa non interrogarsi sul tempo in cui viene prodotta, dando strumenti adeguati all’interpretazione critica del quotidiano.

Mosso dalla stessa convinzione Leonardo Caffo – filosofo e attivista, nonché ricercatore presso il Laboratorio di ontologia applicata di Torino – gli dedica un libro in cui la parabola di Thoreau viene usata come testimonianza ed esperimento retorico attraverso cui leggere l’articolazione del nostro presente. Così dalla metà dell’Ottocento delle profondità americane, Caffo ci trasporta in un tragitto insolito e affascinante, attraverso Il bosco interiore. Per una vita non addomesticata in compagnia di Henry D. Thoreau (Sonda, pp. 111, euro 12) in cui ago e cuneo sono le scelte etiche e intellettuali di uno dei nomi più eccentrici e parzialmente rimossi della storia della filosofia. Più che di storia della filosofia, con le rigidità spesso asfittiche che lo steccato disciplinare imporrebbe, leggendo il volume di Caffo il dislocamento a una più efficace storia delle idee consente di aprire il pensiero di Thoreau a un’interlocuzione sollecitata anche dal nostro tempo.

Nei sette capitoletti che compongono Il bosco interiore vi è la portata centrale dell’esempio personale sia da un punto di vista filosofico che personale; l’analisi delle azioni potenziali e la possibilità trasformativa che poggia sulla collettività; il rapporto intrattenuto con la bellezza e la critica politica della differenza tra Stato e società. Precorrendo alcuni nuclei cruciali che rispondono al contemporaneo, la sua istanza ecologica che prende le mosse da Emerson sarebbe oggi ascrivibile a uno smarcamento radicale dall’antropocentrismo con alcune consonanze – evidenziate da Stanley Cavell – per esempio con Derrida. Utilizzare la misura con cui Thoreau pensava la natura, significa dunque posizionarsi su un crinale in cui si annodano almeno due concetti: quello di animale non umano e di anarchia come ideale regolativo. Anche Il bosco interiore infatti non sfugge ad alcuni punti già cari a Caffo, autore tra gli altri di Il maiale non fa la rivoluzione (2013) – indagine su quali siano le condizioni di possibilità della liberazione animale e proposta del suo manifesto dell’antispecismo debole.

L’addomesticazione alla quale si è opposto fermamente Thoreau converge allora sulla sua scelta di disobbedienza civile – che gli costò il carcere e di cui scrisse a lungo nel suo fortunato Civil Disobedience del 1849. Riferimento per molti autori e autrici – Hemingway, Whitman, Bronson Alcott – padre di Louisa May – , Emily Dickinson, Wittgenstein – è interessante accostarlo a Melville nella formula di Deleuze sull’affermazione di un mondo in svolgimento, perché anche il bosco interiore ce lo potremmo figurare come un arcipelago, insieme alle ulteriori considerazioni deleuziane sull’affinità tra Melville e Thoreau in capo alla scoperta del «male americano, il nuovo cemento che restaura il muro, l’autorità paterna e l’immonda carità».

Sulla pratica del rifiuto, invece, per Thoreau dire di no è stato diverso da quanto ebbe a intendere Bartleby con il suo «I would prefer not to». In proposito fa bene Caffo a ricordare l’espressione in appendice al volume dove compare il piccolo manifesto per una vita non addomesticata, segnalando che Thoreau ha scelto il «nonostante», con tutta la complessità politica di ciò che racconta anche all’oggi.