Gli europei usano trattare la politica americana come qualcosa di esotico e stupirsi di fronte a molte sue manifestazioni. È una propensione paradossale, perché dall’esperienza americana l’Europa ha attinto ampiamente. Da tempo si reclutano da quelle parti esperti di campagne elettorali. Da tanto si sono importati i sondaggi e perfino le primarie. Pure la democrazia americana è sovente additata a modello. Magari ignorando – beata ignoranza! – che il presidenzialismo d’oltreatlantico è un congegno delicato, che non crea affatto un presidente in grado di sovrastare le beghe dei partiti, l’instabilità delle coalizioni e le pretese degli interessi, e neanche un parlamento che rigorosamente lo controlli.

In America c’è una rigida divisione dei poteri, e senza un po’ di armonia tra esecutivo e legislativo la democrazia è paralizzata. O funziona in modo univoco. Giacché la paralisi giova ben più ai conservatori che a chi vuol assumere misure favorevoli alla stragrande maggioranza della popolazione. Ma forse è proprio questo quel che si vorrebbe. Siamo sulla buona strada.

L’ultima novità d’oltreoceano è il fenomeno Trump. Che, per stile e proposte politiche risulta estraneo e indigesto all’America stessa e in special modo all’establishment repubblicano. Trump non è un homo novus. Ha una storia di imprenditore di successo, giocoforza legato da rapporti di complicità coi circuiti del potere. Ma ha la capacità di spacciarsi da innovazione irriducibile alle logiche consuete della politica.

E questo è forse il suo segreto, ben più delle sue singolari proposte di policy. Singolari, va detto, ma non sempre, perché Trump avanza un’offerta protettiva attenta alle sofferenze di parte cospicua della società americana, dei ceti un tempo beneficati dallo sviluppo e dalla piena occupazione, ma da decenni mortificati dal neoliberalismo e da ultimo oppressi dalla crisi. Per questo facili da convincere che la responsabilità della loro condizione è degli immigrati e della concorrenza cinese. È un tema con che gli stessi Repubblicani e il Tea Party avevano anticipato in abbondanza.

Di fronte a un fenomeno così eccentrico le interpretazioni si sprecano. Ce n’è pure una che accosta Trump a Mussolini, grazie anche a una maldestra citazione di uno dei più celebri e stupidi motti di quest’ultimo: «meglio vivere un giorno da leone che 100 giorni da pecora». C’è invero da dubitare che Trump abbia idee chiare su chi sia Mussolini e su cosa ha combinato e la citazione verosimilmente gli è scappata. È possibile pure che non gli sia scappata e lui l’abbia pronunciata ad arte – quanti tra i suoi potenziali elettori sanno chi è Mussolini? – per guadagnare altro spazio sui media.

Tra i due la differenza è comunque radicale. Mussolini era ciò che può definirsi un leader carismatico. L’aggettivo è usato spesso a sproposito, immaginando che il leader carismatico – profeta, eroe, condottiero – sia portatore di qualità eccezionali. In realtà, posto che pure in politica vi sono i bravi e i mediocri, quel che conta davvero per fare il carisma, non sono le qualità eccezionali, ma la reputazione di averle. Che è frutto di una sapiente regia, di un complicato processo di costruzione sociale. Ne offre magistrale descrizione per Hitler il libro di L. Herbst (Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, Feltrinelli, Milano, 2011).
Mussolini effettivamente coltivò, e coltivarono i suoi prossimi e i media compiacenti, sorretti da robusti interessi, una tale reputazione. Si celebrò la, modesta, parte da lui recitata in trincea, gli si radunò attorno un movimento paramilitare, si trasformò una caotica scampagnata nella marcia su Roma, se ne fece il condottiero che avrebbe riscattato l’Italia dalla vittoria mutilata e le avrebbe restituito un avvenire all’altezza del suo nobilissimo passato.
Non c’è nessuno di tali ingredienti nella figura di Trump. A cominciare dalla sua fiammeggiante capigliatura. Trump rappresenta tutt’altro modello di leadership. È l’uomo comune che ha avuto successo, che si ribella alle angherie dell’establishment politico, economico, finanziario.

Non è un capo, né si propone come tale. Vuol essere invece il portavoce delle sofferenze dei suoi connazionali. L’establishment si dedica ai suoi maneggi, Hillary Clinton è la moglie e l’erede di un ex-presidente, di un esponente dunque dell’establishment, in eccellenti rapporti con Wall Street. I suoi concorrenti repubblicani sono senatori ed ex-governatori. Lui, viceversa, è uno che si è fatto da sé, che rifiuta maneggi e compromessi. Possiamo definirlo piuttosto una figura «espressiva».
I leader, e i partiti espressivi, sono venuti di moda da qualche tempo. Corrispondono alla domanda dei cittadini, disinvoltamente ignorati dall’establishment, di dire la loro in qualche modo, di testimoniare il loro disagio. Berlusconi era un leader di questa fatta: un italiano di successo, ma con pregi e difetti dell’uomo della strada. Difetti che non si curava di nascondere.

Mussolini aveva riportato l’impero sui colli fatali di Roma. Berlusconi raccontava barzellette. Era anche, diversamente dall’establishment, l’uomo del fare e non del teatrino della politica. Pure Trump si pretende un uomo del fare.

Attenzione. La domanda di espressione può essere esaudita in molti modi. Il Movimento 5 Stelle ci prova con le consultazioni on line. Il Pd con le primarie e pure Renzi si propone come uomo del fare. Al lettore stabilire in che modo.

Intanto, sul fronte opposto a quello di Trump, in America anche Sanders fa politica espressiva, sebbene adottando un altro registro. Il suo discreto successo è però un’altra prova della mutazione in atto nel modo di fare e pensare la politica. Dove porterà non sappiamo. Potrebbe portare al disastro, ma, se assumesse forme appropriate, prestando ai cittadini un po’ più di rispetto, potrebbe persino riscattarla.