Sin dagli albori della modernità, l’universo carcerario costituisce il prisma attraverso il quale le trasformazioni politiche, economiche e sociali si scompongono e assumono una fisionomia leggibile. Il paradigma disciplinare, il trattamento degli anormali e l’approccio rieducativo costituiscono tappe fondamentali del governo dei conflitti, del governo delle classi pericolose, in relazione con le modifiche qualitative che interessano la società capitalista.
L’ultimo numero della rivista Democrazia & diritto, intitolato Carcere, giustizia e società nell’Italia contemporanea (pp. 174, Franco Angeli), si prefigge lo scopo di fornire una mappa delle trasformazioni della società italiana odierna attraverso il carcere, avvalendosi del contributo di studiosi ed esperti provenienti da vari background: sociologi, giuristi, esponenti dell’associazionismo, provano a delineare le tendenze che riguarderanno il rapporto tra pena e società nel nostro paese.
Muovendosi tra le macerie lasciate dal ventennio securitario, gli autori si muovono su tre piani. Oltre a ricostruire la genealogia del punitivismo contemporaneo, cercano di predire l’effetto che produrranno i nuovi interventi deflattivi, finendo per porsi la vexata quaestio congenita agli studiosi dell’universo penitenziario: esiste una via di uscita dal carcere come strumento di sanzione dei comportamenti illegali?

Parafrasando a rovescio un modo di dire riferito all’economia, ad un primo sguardo possiamo affermare che la polmonite che ha colpito gli Usa, nel contesto penitenziario, ha causato all’Italia soltanto un raffreddore. Infatti, se oltreoceano si assiste ad una parabola inflattiva, che dal 1973 al 2003 ha fatto schizzare il numero dei detenuti da 100mila a 4 milioni di unità (senza contare i detenuti in esecuzione penale esterna), le patrie galere, più o meno nello stesso periodo, hanno «solamente» raddoppiato i loro ospiti, passando dai 25 mila del 1990 agli oltre 60 mila di venti anni dopo. In realtà, a mettere in relazione l’aumento della popolazione detenuta coi cambiamenti sociali degli ultimi venti anni, le lacerazioni prodotte dall’uso della carcerazione sul tessuto sociale italiano risaltano in tutta la loro gravità.

Due terzi della popolazione detenuta sono dovuti alla legislazione criminogena sugli stupefacenti e sulle migrazioni, aggravate dai pacchetti sicurezza approvati dai governi espressioni di diverse maggioranze politiche. Il panico morale seguito a Tangentopoli è scaturito nell’approvazione di un provvedimento che eleva la maggioranza qualificata per approvare le amnistie da due terzi a quattro quinti, rendendo impossibile varare quei provvedimenti di amnistia che consentivano, periodicamente, di riportare il carcere a livelli minimi di vivibilità. Lo stesso indulto dell’estate del 2006, ha provocato non pochi. travagli presso l’opinione pubblica, diffondendo la convinzione, smentita dai dati, che i 30mila detenuti che avevano fruito del beneficio stessero per ridurre il Paese a un Far West contemporaneo.

L’Italia ha seguito le tendenze punitiviste sviluppatesi a ridosso del neo-liberismo, con la sfera penitenziaria sovraccaricata del governo delle trasformazioni sociali e dei conflitti che producono. Il carcere è diventato lo strumento di incapacitazione collettiva per eccellenza, dove i gruppi sociali marginali vengono depositati per fornire una rassicurazione posticcia a un corpo sociale sfilacciato dalla precarietà dilagante e disorientato dalla fine delle grandi narrazioni. Inoltre, abbiamo prodotto una peculiarità tutta nostra, in quanto il ventennio berlusconiano ha assurto a figura paradigmatica dello spazio pubblico l’homo videns, orientato verso il consumo, la soddisfazione di desideri a breve termine, quindi evocatore di misure esemplari più nella loro carica sensazionalista che nella loro efficacia pratica.

La cultura punitivista entra in crisi in questi anni di recessione, trascinandosi dietro il tramonto definitivo delle prospettive rieducative. Si fanno strada altri tipi di provvedimenti deflattivi, e la possibilità di applicare a più ampio raggio misure alternative alla detenzione. Tuttavia, rimane il problema della centralità della punizione nel diritto penale contemporaneo, e la necessità di superarla in modo originale, senza intaccare le prerogative connesse alla tutela dei beni individuali e collettivi. Questo passaggio, sostengono gli autori, non può essere figlio di progetti riformisti dall’alto. Se il carcere è connaturato alla repressione statale e allo sfruttamento capitalista, è a partire dalla messa in discussione dei rapporti di forza esistenti che bisogna muoversi. Peccato che manchi una prospettiva articolata di mutamento radicale, e che invece si stia facendo strada un nuovo panico morale, sotto le spoglie del terrorismo mondiale.