A scorrere il programma della Berlinale non compaiono film latinoamericani nel programma in concorso, tutti raggruppati nella sezione Panorama come in una specie di enclave geografica, a cominciare dal più famoso del gruppo, Daniel Burman, Orso d’oro 2004 con Abrazos Partido. Burman torna al quartiere dell’Once, il quartiere di Buenos Aires dove ha ambientato i suo primi film Esperando al Mesias (2000, Derecho de familia (2005), e dove il protagonista Ariel (l’attore uruguayo Daniel Hendler) cercava di partire in Europa nel momento più duro della crisi economica. El rey del Once il nuovo film di Burman è la storia di un ritorno: Ariel (non più Hendler ma Alan Sabbagh) è diventato un economista affermato a New York e ritorna a Buenos Aires chiamato dal padre che vuole la sua consulenza per rimettere in sesto la Fondazione da lui fondata , una società di mutuo soccorso per gli ebrei del quartiere («ci sono anche ebrei poveri, dice Burman). Mentre crede di aver lasciato alle spalle il suo vissuto, il ritorno a casa lo coglie di sorpresa.

Tutto il film è un tentativo di rispondere alla domanda se sia possibile lasciare il passato dietro alle spalle, enfatizzato dal fatto che il rientro coincide con la festa di Purim che commemora la salvezza dello sterminio. Il film torna anche a un’altra delle tematiche preferite da Burman, il rapporto padre figlio, oltre a indagare sulle esperienze vissute dalla gente del quartiere dopo l’attentato del ’92 all’AMIA, la sede della comunitù ebraica di Buenos Aires.

È invece ambientato in zona rurale argentibna, nella regione di Entre Rios, La helada negra di Maximiliano Schonfeld (in coproduzione con la Germania), il racconto di come una donna diventa improvvisamente per la gente del posto una specie di santa dopo che al suo arrivo si ferma «miracolosamente» la gelata che sta distruggendo i vigneti, un film su come nascono le credenze popolari, già premiato in vari festival.

Un’altra cinematografia latina che raccoglie numerosi riconoscimenti è quella cilena presente a Berlino con due film, due sguardi sulla società ispirati a fatti di cronaca: Aquì no ha pasado nada di Alejandro Fernandez, presentato al Sundance, dove nel nel 2014 ha vinto il premio come miglior film con Matar a un hombre, il suo esordio che parlava di un uomo che si faceva giustizia da solo. Questo è la libera ricostruzione di un celebre caso di assoluzione di un giovane della classe alta di Santiago, figlio di un ex senatore, accusato di omicidio per guida in stato di ubriachezza, ovvero un film su come funziona la legge in una società dove, nonostante le trasformazioni democratiche sopravvivono ancora nette le divisioni di classe. Un esordio che affronta un altro dei punti nevralgici del costume cileno è Nunca vas a estar solo di Alex Anwardter Donoso, famoso musicista e autore di videoclips, interpretato da Sergio Hernandez (Gloria) sull’assassinio di Daniel Zamudio, avvenuto nel 2012 da parte di un gruppo di neonazisti, diventato simbolo dell’omofobia e che spinse all’approvazione di una legge contro la discriminazione (la «Ley Zamudio») che non risultava nell’ordinamento del Cile (né in Italia dove è stata approvata l’anno dopo).

Catalogata come «Indigenous Cinema» è El Abrazo de la Serpiente, un film colombiano di Ciro Guerra che ha già ottenuto alla Quinzaine di Cannes il premio Art ed ora è in nomination agli Oscar per i film non di lingua inglese. Il protagonista è uno sciamano amazzonico, ultimo sopravvissuto della sua tribù e sul suo viaggio insieme a due scienziati (il film si basa sui loro diari) alla ricerca del yakruna, una pianta sacra di difficile reperimento. Il film si basa sui diari degli scienziati.

Uno sguardo non stereotipato sull’Amazzonia a partire dallo spaesamento di un giovane indigeno lo troviamo nel film brasiliano Ante o tempo nao acabava di Sergio Andrade codiretto con Fabio Baldo, montatore del suo ‘A Floresta de Jonathas (2012): dopo tante discussioni con i capi del villaggio, al suo arrivo nella grande città dove ha deciso di andare a vivere, Anderson (l’attore indigeno Anderson Tikuna) si trova a vivere il conflitto tra urbanizzazione e le tradizioni che lo accompagnano. Il film è di produzione amazzonica, girato con gente di Manaus.

In Panorama anche Don’T Call me Son di Anna Muylaert, una delle pochissime registe presenti al festival (una in concorso e solo altre due nel nutrito Panorama). Anna Muylaert ha studiato all’università di San Paolo, viene dalla critica, ha lavorato come reporter in programmi culturali della televisione, il suo quarto lungometraggio La seconda madre vincitore del premio della giuria al Sundance era nel Panorama 2015.

Continua la sua indagine sull’identità con un giovane protagonista che scopre all’improrvviso di non essere il figlio della donna che crede sua madre e si mette a cercare la sua vera famiglia. In Panorama doc Curumin di, Marcos Prado, famoso fotografo di Rio de Janeiro, che racconta di Marco Archer suo amico fin da quando erano ragazzi, condannato alla pena di morte in Indonesia per traffico di droga. Tutto era cominciato quando a 16 anni Archer aveva conosciuto Pablo Escobar, il capo del cartello colombiano (la condanna è stata eseguita nel gennaio 2015).