C’è una piccola e grande speranza, grande come un terzo della Siria. Siamo nel Nord dei territori controllati dal dittatore Assad, dove nel 2011, a partire dalle rivolte contro il regime, i curdi siriani hanno dato vita a un progetto di democrazia confederalista, coinvolgendo le altre etnie del territorio (arabi, assiri, yazidi, turkmeni, armeni) nella scelta di unirsi, autodeterminarsi e rendere il territorio di fatto indipendente.

Tre cantoni – Jazeera, Afrin e Kobane – e altre quattro provincie. Oggi, con quasi 6 milioni di abitanti, l’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est governa da nove anni secondo un modello di “democrazia radicale” una parte consistente di quel grande altopiano chiamato Kurdistan, diviso fra Siria, Iran, Iraq e Turchia.

Dopo aver lavorato per mesi al loro arrivo in Italia, insieme ai colleghi e alle colleghe di Alleanza Verdi e Sinistra, ho finalmente incontrato alla Camera una delegazione di esponenti del Rojava, a dieci anni dalla storica vittoria di Kobane contro l’esercito jihadista. Oggi tutta la Commissione Esteri, presieduta per l’occasione da Lia Quartapelle, ha ascoltato le loro voci nel corso di un’audizione illuminante e toccante.

Abdulkerim Sabri Omer, rappresentate in Europa dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est (Rojava), Noroz Khoja, nome di battaglia Ruksen Mihemed, portavoce delle Unità di Protezione delle Donne YPJ, Medeaj Hasan, co-rappresentante del Rojava in Svizzera, Yilmaz Orkan, direttore dell’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia.

Per Noroz, in particolare, senza il mio passaporto diplomatico e il contatto con le ambasciate di Beirut ed Erbil, muoversi sarebbe stato estremamente rischioso. Da combattente avrebbe potuto essere fermata e posta in arresto sia dalla polizia siriana che da quella turca.

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La dura Resistenza, condotta da molti anni per difendere uno Stato autonomo multiconfessionale e multietnico, il ruolo eroico contro i terroristi jihadisti, così come il modello del Confederalismo Democratico e il protagonismo delle donne curde, garantito da una rappresentanza nelle istituzioni pari al 50%, sono un esempio che dovrebbe ispirare e mobilitare tutta l’Europa.

Eppure, resta l’amara consapevolezza dell’isolamento attuale del Rojava.

Le minacce esterne sono molteplici: dal regime siriano che non accetta un progetto democratico in quello che ritiene un suo territorio, all’ostilità del regime iraniano dominato dal radicalismo islamico, ai timori della Turchia – da sempre repressiva nei confronti dei curdi e preoccupata che la società turca sia influenzata dal modello del Rojava e la minoranza curda rialzi la testa.

I rappresentanti dell’AANES ci hanno raccontato le durissime condizioni di vita causate dall’embargo siriano e dai continui attacchi militari da parte della Turchia, intensificati a causa dell’escalation israeliana contro Gaza.

Il 13, 14, 15 e 16 gennaio, il Centro di Monitoraggio e Informazione (MIC) della Commissione Europea ha registrato 224 attacchi terrestri e aerei turchi, mirati alle aree di Derik, Rumailan, Tarbesbiya, Qamishli, Amuda, Darbasiyah, Zarkan, Tal Tamr, Ain Issa, Kobane, Manbij e Al-Shahba, 121 dei quali effettuati dalle forze turche via terra utilizzando una grande varietà di armi, carri armati, mortai e mitragliatrici pesanti.

Sono stati colpiti posti di blocco delle Forze di Sicurezza Interna, stazioni petrolifere, stazioni di trasformazione elettrica, ma soprattutto campagne, villaggi, strutture e case civili.

Più di 2 milioni di cittadini sono stati lasciati senza elettricità, senz’acqua. L’effetto è una crisi economica che genererà e sta già generando ondate migratorie verso l’Europa.

Attacchi che sembrano mirare a una vera e propria pulizia etnica sul territorio del Rojava: sono stati documentati arresti, stupri, uccisioni. Un tentativo palese di trasformare la demografia dell’area. Di creare un vuoto che potrebbe essere utilizzato da Daesh per riorganizzarsi e riguadagnare terreno.

Un’aggressività generata non certo dall’ostilità dell’AANES verso la Turchia, ma da quella che il governo turco considera la sua spina nel fianco in patria: più di 25 milioni di curdi cittadini del Paese di Erdogan, a cui non si intende concedere nessuna autonomia né spazio politico.

Per questo, da anni, lo Stato turco conduce una violenta guerra contro i popoli della Siria nord-orientale, ignorando le norme internazionali e commettendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il rischio è evidente: la trasformazione dell’intera regione in un focolaio di conflitti che dureranno ancora per decenni, soffocando le opportunità di soluzione e stabilità.

Per questo continueremo a chiedere il riconoscimento dell’Amministrazione Autonoma e un impegno per la soluzione della questione curda da parte dell’Italia e della comunità internazionale. Insieme alla liberazione dei prigionieri politici come Abdullah Öcalan, in carcere da 24 anni. Perché è chiaro che rendere possibile una soluzione politica giusta e democratica alla questione curda passa dalla liberazione e dalla partecipazione di questa figura fondamentale per riprendere il dialogo interrotto. Passa per la rimozione, da parte del Consiglio Europeo, del PKK dalla lista delle organizzazioni terroristiche. E per la cessazione delle incursioni turche anche nel Kurdistan iracheno.

Passa, necessariamente, per la democratizzazione della Turchia e la ricerca di una soluzione pacifica e democratica in Medio Oriente. E dunque per il riconoscimento, da parte dell’Europa, di ciò che l’amministrazione dell’AANES ha fatto e potrebbe fare per diffondere la democrazia e stabilizzare l’intera regione.

Ma c’è un altro tema drammatico che deve coinvolgere gli attori internazionali. Gli aiuti umanitari, provenienti dalla comunità internazionale, anche dall’Italia, sono gestiti dal governo di Assad, ancora riconosciuto dalle Nazioni Unite, che blocca beni alimentari e finanziamenti, oltre a visitatori e giornalisti. La conseguenza è che l’AANES mantiene a sue spese tutti i rifugiati.

Non solo. In Rojava i due campi di Al-Hol e di Roj ospitano quasi 70mila persone prigioniere: jihadisti di Daesh, provenienti da più di 40 Paesi, con le loro famiglie, inclusi moltissimi bambini. Una polveriera.

Il campo di Al-Hol ha segnalato disordini all’interno: donne appartenenti alle famiglie dei membri dell’Isis hanno guidato rivolte e atti di disobbedienza. Presenza di armi, tunnel sotterrai, ma anche matrimoni, nascite. I bambini nei campi sono addestrati, ideologizzati e radicalizzati, spinti a condividere la cultura di morte dello Stato Islamico. La comunità internazionale considera Al-Hol un campo profughi, ma di fatto è terreno di riorganizzazione di Daesh e di addestramento per una nuova generazione di soldati del Califfato.

Che cosa sta facendo la comunità internazionale? Che cosa stanno facendo i Paesi di origine per rimpatriare le madri e i loro figli? Per sostenere l’Amministrazione Autonoma nella gestione e nella ristrutturazione del campo di Al-Hol? Semplicemente nulla, abbandonando il Rojava nella gestione di una crisi che rischia di diventare dirompente, con migliaia di cellule dormienti di Daesh ancora presenti nella regione, zone di addestramento nel deserto siriano, nonché sostegno da parte di alcuni Paesi (Russia, Turchia, Iran) che stanno contribuendo a tutti gli effetti a riportare alla luce l’attività terroristica di Isis. Il rischio, insomma, è tutt’altro finito dopo il 2019.

Quasi 12 mile “foreign fighters”, cittadini di 54 Paesi diversi, molti di origine europea, si trovano nelle carceri nel Nord-Est della Siria. Per tutti questi terroristi di diverse nazionalità bisognerebbe garantire processi davanti a un Tribunale internazionale istituito dalle Nazioni Unite. O quanto meno aiutare il governo del Nord-Est della Siria con il supporto di consulenti e delegazioni internazionali.

A oggi, tuttavia, sulle sole spalle dell’AANES è scaricata anche la gestione dei terroristi, che rischiano di scappare verso la Turchia, com’è già avvenuto nel 2022 con la fuga di massa di centinaia di ex combattenti dell’Isis dalla prigione di Al-Hasakah. Una fuga favorita da cellule di Daesh aiutate dalla Turchia stessa, che interviene direttamente per riaprire i confini all’Isis e colpire l’Amministrazione e i suoi leader quando conducono operazioni contro i jihadisti. Se non eravamo già consapevoli, le parole della delegazione curda devono aprirci gli occhi, prima che sia troppo tardi.

È il momento che l’Europa e tutte le istituzioni internazionali riconoscano come un interlocutore l’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est. Che gli aiuti umanitari siano indirizzati direttamente all’AANED o alle Organizzazioni non governative presenti nell’area, senza la mediazione di Damasco, per esempio riaprendo il valico attraverso l’Iraq. Che per tutti quei bambini che stanno andando “a scuola di terrorismo” siano garantiti e finanziati non tre, ma almeno 15 centri di riabilitazione.

È il momento di superare la riluttanza della comunità internazionale a riaprire il dossier della Siria, consegnato nelle mani di Russia, Turchia e Iran che sono parte della crisi siriana. È il momento che cessino l’ipocrisia e l’opportunismo delle relazioni pericolose dell’Occidente e dell’Europa con Erdogan, acclarato fiancheggiatore del terrorismo di matrice islamica. Che il veto della Turchia non sia motivo di esclusione dei quasi 6 milioni di cittadini del Nord-Est della Siria dal processo politico e dai negoziati di pace di Ginevra.

Eccola, la grande speranza che nasce dal piccolo territorio del Rojava. Non possiamo rassegnarci a chiamarla utopia.