Stamattina si sono dati appuntamento alle otto a piazza Garibaldi, in corteo andranno verso piazza del Gesù, l’intenzione è incrociare il cammino di papa Francesco in visita a Napoli per consegnargli di persona la lettera che gli anno scritto. Sono la comunità migrante residente in città e nell’hinterland partenopeo, sono richiedenti asilo che non riescono ad accedere ai servizi di cui pure avrebbero diritto (e spesso finiscono col dormire nella Stazione centrale), sono ambulanti sfruttati e cacciati via da piazza Garibaldi per far posto al progetto Grandi stazioni, sono la comunità bengalese che cuce i vestiti per le marche italiane. «Non più schiavi ma fratelli ha detto il papa – raccontano – e così ci siamo detti ‘ma parla proprio di noi’. Non importa di che religione siamo, apparteniamo alla stessa umanità ed è in nome di questo che abbiamo scritto al Papa».

Nella lettera raccontano di aver trovato l’inferno in Italia, ma alcuni di loro hanno avuto il coraggio di denunciare chi li sfruttava: «Da queste tenebre alcuni di noi sono venuti fuori, tirando fuori anche altri». Sono i lavoratori bengalesi del distretto tessile disseminato nell’hinterland a nord di Napoli, tra Grumo Nevano, Casandrino e Sant’Antimo. Supportati dall’associazione 3Febbraio, hanno denunciano alla Dda di Napoli la loro condizione di schiavi. Attraverso la procura hanno ottenuto il permesso di soggiorno per protezione sociale e grave sfruttamento lavorativo. Una misura applicata per le donne sottoposte a tratta e costrette alla prostituzione, per la prima volta la protezione sociale viene estesa anche a dei lavoratori. A ribellarsi all’inizio erano in pochi, poi però la rete di associazioni, parrocchie e avvocati li ha aiutati: a presentare denuncia sono stati un centinaio, una ventina hanno già ottenuto il permesso di soggiorno.
Sono circa duemila nel distretto a nord di Napoli, altrettanti risiedono a Palma Campania, le storie si assomigliano: nella loro comunità in patria vive Sheik Mohammed Alim, «un uomo potente, ha più di 200 case» raccontano, è lui che li avvicina oppure un suo familiare, la promessa è un lavoro a Napoli come sarto per 2mila euro al mese. Alim pensa a tutto: documenti, viaggio, alloggio, lavoro. Così contraggono un debito di 12mila euro e arrivano a Fiumicino, il padrone li prende col pulmino e li porta direttamente nel luogo della loro schiavitù. Isolati, lavorano in quaranta per sartoria, nei sottoscala dei palazzi, 14 ore al giorno senza pausa dalle 6.30 alle 20.30 dal lunedì al sabato, la domenica dalle otto di mattina alle cinque di pomeriggio, una paga che non supera mai i tre euro all’ora e sequestro del passaporto. Gli ultimi arrivati montano la sera e cuciono fino al mattino. Se ti ribelli vieni percosso, se non lo fa Alim ci pensa uno dei suoi kapò.

I ragazzi raccontano e mostrano le ferite, uno di loro a una cicatrice sulla fronte: gli hanno sbattuto la testa sulla macchina da cucire.
«Dopo sei mesi – racconta Tifur – credevo di aver pagato il mio debito ma continuavo a non ricevere lo stipendio. Dopo un anno ancora niente. Ci sono voluti ancora mesi per strappare una paga di 250 euro. Un nostro collega lo ha denunciato, la polizia è arrivata a casa sua in Bangladesh per arrestare la famiglia, si sono salvati solo perché l’ambasciata italiana ha mandato il testo della denuncia e ha garantito per loro. Alim è potente in patria e anche qui. ‘Nessuno mi fa niente’ ci ripete, ‘è inutile che denunciate. Io lavoro solo per le marche’, ti fa sentire da solo senza nessuna alternativa».

Producono capi per grandi marchi locali che si stanno facendo largo sul mercato, gli intermediari tra le firme e il produttore sono tutti italiani. Da quando sono arrivate le denunce sono cominciati anche i controlli: «Funziona così – spiega Gianluca Petruzzo di 3Febbraio -, forze dell’ordine, ispettori del lavoro e dell’Asl si riuniscono nella piazza di Sant’Antimo, il paese del potente deputato Luigi Cesaro. Tutta la cittadinanza se ne accorge, i proprietari delle fabbriche vengono avvertiti e così i lavoratori scappano dalle finestre. Del resto ad Alim l’Inps ha chiuso la sartoria per irregolarità, lui ha pagato una maxisanzione di 2/300mila euro e dopo due giorni era di nuovo in affari».